DOSSIER

CULTURA E INCULTURAZIONE NEL SINODO DEI VESCOVI PER L'ASIA

Andrea Tessarolo, scj

Si è celebrato a Roma, dal l9 aprile al 14 maggio 1998, il sinodo speciale dei vescovi per l'Asia, il continente più vasto e misterioso della terra, con 44 milioni di Kmq di superficie e più di tre miliardi di abitanti, cioè oltre i due terzi dell'intera popolazione mondiale. È il continente nel quale sono sorte e ora sono presenti tutte le grandi religioni del mondo: induismo, buddismo, ebraismo, cristianesimo e islamismo; ed è la culla anche di diverse altre tradizioni religiose o filosofiche, come il taoismo, il confucianesimo, il giainismo, il sikhismo, ecc., tutte aventi un compito di "redenzione"; offrendo una particolare interpretazione sia sulla persona umana, sia sulle condizioni e le vie offerte all'uomo per la liberazione dal male e la salvezza.

In questo vasto continente, la presenza dei cattolici non va oltre una media del 4%, e circa la metà sono concentrati in alcune regioni dell'India (in particolare il Kerala), nelle Filippine, in Corea e Indocina; per cui in tutti gli altri paesi si tratta di piccole minoranze molto esigue tra il due e il tre per cento, anche se in alcuni paesi hanno ugualmente acquisito una autorevolezza morale notevole.

Quasi tutti i paesi dell'Asia occidentale (il Medio Oriente) avevano aderito al Vangelo fin dal primo secolo della nostra era; ma poi ha prevalso l'islamismo, anche se in tutti questi paesi c'è ancora qualche diocesi di origine apostolica; come di origine apostolica sono i cosiddetti "cristiani di S. Tommaso" dell'India meridionale.

Anche in Cina il cristianesimo è arrivato assai presto, nel 635, ma nella versione nestoriana. Ce lo attesta la famosa stele, scoperta nella città di Changan, scolpita nel 781 d.C. e tuttora esistente. Una accoglienza favorevole avevano incontrato anche in seguito alcuni missionari che annunciavano Cristo, ma rispettando e accogliendo valori culturali e anche tradizioni religiose locali. Possiamo ricordare per la Cina il p. Giovanni da Montecorvino (1298-1318) e il p. Matteo Ricci (1577-1610); e per l'India il p. De Nobili (1577-1656); e infine per il Siam mons. Laneau delle Missioni estere di Parigi sul finire del 1600.

Una presenza particolarmente feconda fu anche quella di S. Francesco Saverio, l'apostolo delle Indie. Ma così vive speranze vennero poi in gran parte frustrate da polemiche e condanne per i metodi da essi adottati (la questione dei riti malabarici o dei riti cinesi), tanto che a partire dal 1715 i missionari che partivano per l'Asia dovevano emettere il giuramento di escludere, nella loro azione pastorale, qualsiasi cerimonia o tradizione religiosa, proprie dei paesi asiatici, perché ritenute tutte incompatibili con la fede cattolica. Nessuna stima quindi si aveva in quel tempo per i valori religiosi non cristiani. In questo modo però nelle Chiese locali che andavano sorgendo veniva mortificata ogni creatività, col risultato che un cristianesimo, trapiantato in Asia nei panni della cultura europea, molto spesso viene considerato una religione essenzialmente straniera e occidentale.

I temi affrontati

Questo sinodo aveva per tema: "Gesù Cristo, il Salvatore, e la sua missione di amore e di servizio per l'Asia: perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza". Quindi "Gesù Salvatore", ma nella prospettiva della "missione" che ha la Chiesa di annunciare il suo messaggio ai popoli dell'Asia, in un linguaggio anche per loro pienamente comprensibile, e rendendosi essa stessa veramente "credibile".

Un argomento così centrale per il cristianesimo, assieme ai problemi della "comunicabilità" e della "credibilità", ha impegnato la riflessione sulle tematiche più diverse; e tuttavia sempre con la preoccupazione di un "approccio asiatico" ai problemi... presupponendo una adeguata conoscenza dei valori e delle tradizioni religiose di quel vasto continente, ma anche cercando di formulare una presentazione di Cristo e del suo messaggio che susciti in quei popoli interesse e gioia, e apra i cuori alla speranza che non delude.

Costante è stata anche la preoccupazione di presentare la Chiesa non come una istituzione potente, ma come mistero di comunione e cammino di spiritualità, impegnata sia nella vita di preghiera e nella ricerca di Dio, sia nella solidarietà con tutti i poveri della terra.

Quattro sono stati i settori, o centri d'interesse, sui quali c'è stata una maggiore convergenza dei padri sinodali. Difatti, dividendo secondo i temi trattati i 169 interventi fatti in aula, risulta che 29 sono stati sul dialogo interreligioso; 26 su l'inculturazione; altri 26 su problemi sociali e promozione umana (globalizzazione, giustizia, pace, la donna, le migrazioni, ecc.); e 22 su l'evangelizzazione.

Non è possibile, in questa sede, soffermarci su tutte queste tematiche. Limiteremo quindi la nostra esposizione al tema dell'inculturazione, ben sapendo però che essa ha molteplici addentellati, a seconda che si tratti di inculturare il messaggio evangelico, o la concezione che si ha della Chiesa, oppure i riti e le celebrazioni liturgiche, oppure anche il concreto e feriale "vivere cristiano".

Prevalente però è stata l'insistenza sulla necessità dell'inculturazione in due ambiti: nel presentare la figura di Gesù Salvatore e nel modo di gestire la vita liturgica delle comunità.

L'inculturazione del messaggio

"L'evangelizzazione, si legge nella proposizione n. 6, è oggi una realtà ricca e dinamica. Presenta molteplici aspetti ed elementi: il dialogo, l'annuncio, la catechesi, la conversione, il battesimo, l'inserimento nella comunità ecclesiale, il radicamento nella Chiesa, l'inculturazione e la promozione integrale dell'uomo. Di conseguenza, nell'annuncio di Gesù Cristo ai popoli dell'Asia dovrebbe essere presa in considerazione questa ricchezza: Gesù Cristo come il maestro di saggezza, il guaritore, il liberatore, la guida spirituale, l'illuminato, l'amico compassionevole dei poveri, il buon samaritano, il buon pastore, ecc." Solo in una catechesi successiva e più completa Gesù Cristo potrà essere presentato come vero uomo e vero Dio.

Anche nella "relazione generale" si sottolinea che "non sono gli argomenti dottrinali che renderanno la persona di Gesù avvincente e accettabile agli occhi dei popoli asiatici". Anzitutto, si fa notare, è la testimonianza, resa a Gesù dai cristiani, che dovrebbe essere "convincente". E si precisa: "Un Servo sofferente del Signore, che condivide la sofferenza, la povertà, l'emarginazione, lo sfruttamento degli asiatici, e capace di offrire loro il senso della dignità dell'uomo, riuscirà a conquistare il cuore dell'Asia".

Inculturazione della liturgia

Un altro campo per il quale è stato chiesto a gran voce un reale impegno per l'inculturazione è stato quello della liturgia, motivo nei secoli passati di tante polemiche e incomprensioni. Da alcuni decenni si respira ormai una diversa sensibilità, anche se troppo spesso solo a livello verbale. La liturgia è ritenuta uno "strumento primario" dell'evangelizzazione. Ha permesso alle Chiese perseguitate di salvare la fede. Deve però essere più viva e suggestiva, e "toccare il cuore" dei fedeli. Essa quindi non può ridursi a puro "rubricismo". "L'inculturazione che oggi viene chiesta per le Chiese dell'Asia orientale, afferma il vescovo greco melkita C.S. Bustros, è già stata realizzata nelle Chiese dell'Asia occidentale nel corso del primo millennio. Oggi la soluzione alle divisioni tra le Chiese va ricercata nell'accettazione della diversità, nelle espressioni della stessa fede, e della diversità delle tradizioni ecclesiali".

"C'è un generale apprezzamento per il lavoro sin qui fatto, commenta H. Mattè in "I1 Regno" (12/98, p. 415); apprezzamento che non è tradotto in procedure conseguenti".

In particolare, "viene sentito mortificante il grado di controllo di Roma". E porta un esempio paradigmatico relativo proprio all'inculturazione della liturgia. È preso dall'intervento del vescovo indonesiano Fr. Hadisumarta che dice, tra l'altro: "Le conferenze episcopali hanno presieduto alla traduzione e all'adattamento dei testi liturgici. Attualmente tutto questo lavoro deve essere trasmesso per l'approvazione a Roma, a persone che non comprendono la nostra lingua. Noi ci aspettiamo un incoraggiamento per passare dall'adattamento all'inculturazione e creare nuovi riti, riti indigeni". Le "propositiones" hanno formalizzato questa richiesta; difatti quella n. 43 chiede che sia concessa alle conferenze episcopali e alle conferenze regionali dei vescovi l'autorità o la competenza di approvare le traduzioni dei testi liturgici in lingua vernacolare e le traduzioni siano solo "trasmesse" al dicastero romano.

Maggiore autonomia delle Chiese locali

Numerose sono state le richieste di maggiore autonomia, da riconoscere alle Chiese locali in materia di dialogo interreligioso, di inculturazione, di adattamento alle tradizioni e all'ethos del luogo. A questo tema è dedicato per intero l'intervento in aula del vescovo Hadisumarta (Indonesia), il cui testo viene allegato a questo "dossier".

A questo problema si accennava già nell'Istrumentum laboris, al n. 38, dove si legge: "Certe risposte precisano che si dovrebbe accordare una maggiore autonomia alle Chiese locali in materia di dialogo, inculturazione e adattamento". E mons. Bustros, vescovo di Baalbek dei greco melkiti, commenta: "Vorrei chiedere, per le Chiese orientali cattoliche, la stessa autonomia che verrà accordata alle Chiese ortodosse il giorno in cui si realizzerà l'unione fra le Chiese ortodosse e la Chiesa cattolica romana. Mi accontenterei di tre cose:

a) Riconoscere ai sinodi delle Chiese patriarcali il diritto di eleggere i vescovi delle loro chiese indipendentemente dai dicasteri romani. Tradizionalmente infatti l'elezione dei vescovi avviene in seno a ogni patriarcato. E se oggi il papa di Roma nomina i vescovi della Chiesa cattolica, lo fa in quanto patriarca d'Occidente e non in quanto primate della chiesa universale.

b) Riconoscere ai sinodi delle chiese patriarcali il diritto di creare delle eparchie e di nominare i vescovi per i fedeli delle loro chiese al di fuori dei territori tradizionali dell'Oriente, e questo indipendentemente dai dicasteri romani.

c) Riconoscere alle chiese patriarcali il diritto di avere dei preti sposati nelle loro eparchie d'Occidente così come avviene nelle loro eparchie d'Oriente.

Tutte queste cose fanno parte dell'inculturazione e, rispettandole, la Chiesa cattolica romana farà avanzare quel processo di unità dei cristiani al quale ci invitano pressantemente l'enciclica Ut unum sint e le lettere apostoliche Orientale Lumen e Tertio millennio adveniente di sua santità Giovanni Paolo II.

Alle soglie del terzo millennio, siamo chiamati ad accettare la diversità delle nostre tradizioni ecclesiali per proclamare insieme la nostra fede nel Cristo venuto per la deificazione dell'uomo, venuto perché tutti gli uomini abbiano la vita divina e l'abbiano in abbondanza" (C. S. Bustros).

Sul tema di una maggiore autonomia è intervenuto anche mar Kuriakose Kunnacherry, vescovo di Kottayam dei siro malabaresi, che dice: "L'esortazione del Concilio Vaticano II ad accogliere, con ammirazione e gratitudine, la varietà delle chiese dev'essere ancora compresa e attuata in tutto il suo significato, se si vuole che i popoli dell'Asia guardino alla chiesa come a una fonte di vita. Le comunità asiatiche non devono essere sfigurate per adattarle alla struttura ecclesiastica tipica del modello romano. La flessibilità e la libertà annunciate da Cristo dovrebbero piuttosto consentire ai popoli dell'Asia di abbracciare la vita piena in Cristo con le loro caratteristiche culturali, razziali ed etniche".

Inculturazione e adattamento, soprattutto in campo liturgico, sono proposti in modo esplicito anche in diverse propositiones. Particolarmente significativa per la chiarezza del linguaggio e per il vigore con cui espone il problema è la propositio n. 43. Per cui vale la pena riprodurla qui per intero. Inizia così: "L'opera di radicamento del Vangelo nelle diverse culture dell'Asia esige molta riflessione e molto discernimento... Bisogna trovare percorsi e approcci idonei, creativi, dinamici per promuovere l'inculturazione nei campi della teologia, della liturgia, della religiosità popolare, ecc. Questo sinodo annette molta importanza all'inculturazione dell'annuncio di fede e incoraggia il proseguimento di ricerche teologiche per opera sia dei teologi in particolare, sia di ogni chiesa in generale. Tale impegno teologico deve essere mantenuto con coraggio, con fedeltà alle Scritture e alla tradizione della Chiesa, in comunione col magistero e con piena conoscenza delle situazioni pastorali.

La liturgia è uno strumento primario dell'evangelizzazione. Nelle chiese orientali, essa ha salvato la fede ed è stata inculturata con successo. Essa deve toccare il cuore dei membri della chiesa locale ed essere suggestiva. Per molti cattolici asiatici, la liturgia ufficiale è spesso percepita come estranea e non tocca il loro cuore. Ciò manifesta la necessità di inculturare la liturgia in modo tale che divenga più significativa e feconda nel contesto delle loro culture (cf. Evangelii nuntiandi, n. 48; EV 5/1 643ss).

Di conseguenza, le chiese locali devono avere l'autorità e la libertà di inculturare la liturgia adattandola alle culture locali, pur riconoscendo la necessità del dialogo e della comunione con la Santa Sede, principio dell'unità nella chiesa.

Il sinodo chiede alla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti di concedere alle conferenze episcopali e alle conferenze regionali dei vescovi l'autorità o la competenza di approvare le traduzioni dei testi liturgici in lingua vernacolare, che infine devono essere trasmesse allo stesso dicastero.

Bisogna riconoscere che l'inculturazione della liturgia, pur necessaria, è un compito delicato che non può e non dovrebbe compromettere l'essenziale della liturgia e della fede cristiana".

Non si devono vedere, in questi testi, delle rivendicazioni ad una maggiore autonomia più o meno in senso politico, ma piuttosto la richiesta di una reale disponibilità da parte di tutti a discernere sia le esigenze insopprimibili dello spirito umano sia l'azione potente dello Spirito di Dio che guida la Chiesa. Questo richiamo è stato sottolineato sia dal vescovo di Naha (Giappone), mons. B. T. Oshikawa, sia dal card. Ratzinger.

È necessario assicurare, ha detto il primo, "che non vi siano imposizioni di sorta a ostacolare l'azione dello Spirito nella vita e nella mente di persone che, nella splendida varietà di storie e culture, cercano Dio con cuore sincero". Ciò significa che la Santa Sede è chiamata a "ridefinire il suo ruolo", abbandonando "una normativa, uniforme e astratta, che soffoca una spiritualità genuina".

Notevole anche l'intervento del card. Ratzinger là dove afferma: "Ci sono motivi reali per temere che la Chiesa possa indossare troppe istituzioni di diritto umano, che diventano poi come la corazza di Saul, che impediva al giovane Davide di camminare. È sempre necessario esaminare se istituzioni, che sono state una volta utili, servono ancora. L'unico elemento istituzionale necessario per la Chiesa è quello dato dal Signore: la struttura sacramentale del popolo di Dio, centrata sull'eucaristia".

Parole chiare e impegnative, che provengono da persone competenti e autorevoli, e che fondatamente aprono il cuore a grandi speranze. Ci auguriamo che non restino parole scritte su polverosi volumi di biblioteca, ma siano proposte e accolte come sapienti direttive nel tracciare i cammini di chiesa per i credenti del terzo millennio.

ALLEGATO PRIMO

Un ruolo maggiore per le conferenze episcopali

+Francis Hadisumarta o.carm.

vescovo di Manokwari-Sorong

(Indonesia)

Ci piace pubblicare per intero questo testo del vescovo Hadisumarta (Indonesia), sia perché abbiamo numerosi confratelli scj in quella nazione sia perché si tratta di un intervento molto significativo e fortemente motivato. Di solito negli interventi in aula, i padri sinodali si limitavano a richiamare molto brevemente soltanto qualche particolare aspetto del tema trattato. I1 presente intervento invece è più articolato e tocca diversi temi molto sentiti come l'autonomia delle chiese locali, l'inculturazione, il dialogo interreligioso, l'adattamento liturgico, ecc. Ed essendo stato pronunciato a nome dell'intera conferenza episcopale indonesiana ci fa ancor più comprendere quanto siano sentite e condivise le sue riflessioni. (N.d.R.)

Parlo a nome della Conferenza episcopale indonesiana. Nella nostra risposta ai Lineamenta facevamo riferimento alla relazione fra le chiese locali a livello regionale e mondiale. Il concilio Vaticano II ha delineato la visione della Chiesa cattolica come una comunione di chiese (Lumen gentium, n. 23; cf. Ad gentes c. III). Siamo uniti in una sola fede che è espressa in ogni lingua e cultura. La fede è una, la sua espressione è molteplice. In Indonesia diciamo: Bhinneka Tunggal Ika (unità nella diversità). Il cattolicesimo è arricchito dalla varietà delle chiese locali, ognuna delle quali è radicata nel proprio contesto locale, in vivo contatto con ogni altra.

Paolo, l'apostolo collegiale

La chiesa cattolica non è una piramide monolitica. I vescovi non sono segretari di filiali che aspettano le istruzioni dalla sede centrale. Siamo una comunione di chiese locali. Paolo è il grande apostolo della collegialità. Egli ha instancabilmente visitato la chiese locali, esortando, supplicando, a volte arrabbiato o deluso, a volte pieno di gioia e di consolazione. Paolo ha raramente impartito ordini o istruzioni; ha discusso non dato ordini. Al tempo di Paolo, a decidere era la comunità locale con a capo il consiglio degli anziani (episcopi e presbyteri).

Chiesa sinodale a ogni livello

Ai nostri giorni, le strutture ecclesiali cominciano a riflettere di questa ritrovata visione conciliare. Le parrocchie vivono sempre più come comunione di comunità ecclesiali di base, unite a livello parrocchiale nel consiglio formato dai rappresentanti di ogni comunità di base e sostenute da una varietà di ministeri. I decanati e i vicariati si riuniscono regolarmente in consiglio, nel quale i presbiteri e i laici condividono le loro esperienze e cercano insieme nuove strade per l'evangelizzazione. Anche le diocesi sono una comunione di comunità, in cui i consigli pastorali e presbiterali si incontrano regolarmente per rielaborare la loro visione e stabilire le linee guida della missione. A livello nazionale o regionale vi sono le conferenze episcopali.

Valorizzare le conferenze episcopali

A partire dal concilio Vaticano II il ruolo delle conferenze episcopali nella guida del movimento del rinnovamento e della missione è stato fondamentale. Le conferenze episcopali hanno presieduto alla traduzione e all'adattamento dei testi liturgici. Attualmente, tutto questo lavoro vitale deve essere trasmesso per l'approvazione a Roma, a persone che non comprendono la nostra lingua! Noi ci aspettiamo un incoraggiamento per passare dall'adattamento all'inculturazione e creare nuovi riti, riti indigeni.

Una chiesa locale diventa veramente locale quando le sue leggi non solo sono in sintonia con lo spirito del Vangelo e con le norme ecclesiali, ma anche con l'ethos e la tradizione giuridica della popolazione locale. Abbiamo bisogno di adattare il diritto canonico in molte aree pastorali di fondamentale importanza. Abbiamo bisogno di avere l'autorità di interpretare il diritto canonico secondo il nostro ethos culturale, di cambiarlo e, all'occorrenza, sostituirlo.

Esistono molti ambiti nei quali l'autorità dovrebbe essere in mano alla chiesa particolare, cioè alla conferenza episcopale. Per esempio, la scelta e la nomina dei vescovi e l'istruzione e la disciplina del clero. Da trent'anni la Conferenza episcopale indonesiana torna regolarmente a chiedere l'ordinazione di viri probati. In molte diocesi, compresa la mia diocesi di Manokwari-Sorong in Irian Jaya, la maggior parte dei cattolici indonesiani vive della sola Parola e non della Parola e dei sacramenti. Stiamo diventando «protestanti» per inerzia (ingl. by default). Queste tematiche pastorali non potrebbero essere elaborate, e decise, dalla conferenza episcopale locale? (ad es., la diocesi di Sanggau chiede se è vero che gli «ex-preti» devono essere esclusi dagli uffici ecclesiali. Cf. Responses n. 14.2.2, 36). Le prime parole di Gesù ai suoi discepoli, la sera di Pasqua, sono state: "Pace a voi! Non temete!" All'inizio del nuovo millennio dobbiamo trasmettere un messaggio pasquale di speranza.

Informazione, non controllo

La nostra chiesa è cattolica cioè chiaramente apostolica, evidentemente pastorale e universale nella sua fede. La teologia, la spiritualità, il diritto e la liturgia dovrebbero essere diverse quanto lo sono le nostre lingue e culture. In avvenire questo dovrebbe produrre un cambiamento nelle relazioni fra la conferenza episcopale e i vari dicasteri romani. Allora la curia romana diventerebbe un punto di smistamento, di informazione, di appoggio e di incoraggiamento, piuttosto che un organo decisionale a livello mondiale. Come già l'apostolo Paolo, la curia incoraggerebbe, stimolerebbe e implorerebbe, invece di dare ordini. Analogamente, cambierebbe anche la relazione fra la conferenza episcopale locale e il nunzio apostolico.

In sintonia con l'antica autonomia delle chiese d'Asia

Spesso mi chiedo: Come mai la nuova evangelizzazione non decolla? Che cosa manca? Occorre fiducia: fiducia in Dio e fiducia gli uni negli altri. E occorre che la fiducia sia sostenuta dalla necessaria potestà di prendere delle decisioni.

Questa concezione, in base alla quale le conferenze episcopali avrebbero la fiducia e l'autorità di evangelizzare - in dialogo con i poveri, con le culture e con le altre tradizioni di fede - è antica e nuova al tempo stesso. Abbiamo abbastanza fantasia per immaginare la nascita di nuovi patriarcati, per esempio il patriarcato dell'Asia meridionale, del Sud-est asiatico e dell'Asia orientale? Questi nuovi patriarcati, di natura sinodale, sosterrebbero, rafforzerebbero e amplierebbero l'azione delle singole conferenze episcopali. E di pari passo con la promozione della missione da parte delle conferenze episcopali, in comunione con le conferenze episcopali vicine appartenenti allo stesso (nuovo) patriarcato, sorgerebbero nuovi riti cattolici. Noi auspichiamo quindi un radicale decentramento del rito latino con l'introduzione in Asia di tutta una serie di riti locali, uniti collegialmente nella fede e nella fiducia, in ascolto gli uni degli altri mediante appropriati strumenti sinodali a livello di parrocchia, decanato/vicariato, diocesi, nazione/regione, continente/continenti. Allora, a quasi quarant'anni dal concilio Vaticano II, sperimenteremmo veramente una "grande epoca sinodale".

ALLEGATO SECONDO

Il dialogo tra cristiani musulmani

+ Cyrille Salim Bustros

vescovo di Baalbek dei greco-melkiti

Uno dei temi più ricorrenti, negli interventi in aula dei padri sinodali, è stato certamente il dialogo interreligioso. Per una chiesa le cui comunità sono tutte in una situazione di minoranza rispetto alle grandi religioni tradizionali dell'Asia non è possibile vivere senza continui rapporti con persone e con una società che professano una fede diversa. Sarebbe un tema, quindi, che meriterebbe di essere trattato a parte. Non potendolo fare in questo quaderno di "Dehoniana", non abbiamo però saputo resistere alla tentazione di citare un brano del vescovo Bustros, dei greco-melkiti, che con brevi frasi sottolinea la necessità e, insieme, le enormi difficoltà del dialogo tra le comunità cristiane del Medio Oriente e l'ambiente musulmano dentro il quale si trovano inserite e, almeno a volte, quasi "imprigionate". (N.d.R.)

Benché inserite in culture islamiche e di lingua araba, e quindi ben piazzate per dialogare con l'islam, le chiese del medio oriente si trovano anche in una regione piena di conflitti e sono minacciate dal fondamentalismo religioso. Al riguardo, vorrei fare tre osservazioni:

1. I conflitti nei quali si trovano coinvolte queste chiese sono più di natura politica che religiosa. Anche il fondamentalismo religioso è di natura religiosa e politica al tempo stesso. In Libano, la resistenza islamica è opera del partito degli hezbollah. Ora questo partito è sostenuto dall'Iran sciita e mira sia a stabilire in Libano un governo basato su una Costituzione islamica, sia a porre fine all'occupazione militare israeliana nel sud del paese. Ma la liberazione della parte meridionale del Libano è perseguita anche da altri partiti libanesi non fondamentalisti. E poiché Israele è incondizionatamente sostenuto dagli Stati Uniti, che sono considerati un paese cristiano, i cristiani libanesi vengono spesso visti dai musulmani come agenti del colonialismo americano e occidentale. Così la missione dei cristiani in mezzo ai musulmani è ostacolata dal sostegno incondizionato offerto dagli Stati Uniti a Israele. La soluzione del problema israelo-palestinese e la liberazione dei territori occupati da Israele in Siria e in Libano saranno, per noi cristiani del Medio Oriente, di grande aiuto per il nostro dialogo e la nostra convivialità con i musulmani. Perciò il sinodo per l'Asia dovrebbe fare appello alle grandi potenze perché trovino senza indugio una soluzione equa a questo problema che si protrae ormai da più di cinquant'anni.

2. La missione della chiesa in mezzo ai mussulmani presenta un doppio aspetto:

a) "Proiettare l'immagine di una chiesa serva", come afferma il testo dell'Instrumentum laboris (n. 11), e questo mediante "le opere di carità e la testimonianza cristiana nelle scuole, negli ospedali e nelle altre missioni apostoliche" (n. 11). Quest'aspetto continua l'incarnazione del Figlio di Dio così come viene descritta nel n. 28 dell'Instrumentum laboris. La comunità che Gesù ha fondato, dice il testo, deve "seguire il suo esempio e contraddistinguersi per certe qualità umane, quali la misericordia, il perdono, la semplicità e l'autenticità della vita, l'amore fraterno e la carità nel mutuo servizio e la condivisione dei beni, spirituali e materiali" (n. 28).

b) La chiesa deve cercare anche di cambiare la mentalità dei musulmani e soprattutto dei fondamentalisti che mirano a stabilire ovunque la legge musulmana (la sharia). È in questo senso che si dovrà comprendere oggi l'appello rivolto da Gesù Cristo agli ebrei all'inizio della sua predicazione: "Convertitevi e credete al Vangelo". Nei confronti della legge islamica, come allora nei confronti della legge ebraica, noi oggi dobbiamo proclamare, sull'esempio di Cristo, il Vangelo dell'amore. È questo il messaggio centrale della nostra predicazione in ambiente musulmano: Dio non è una legge. Dio è amore. E gli uomini sono invitati non a sottomettersi a una legge, ma a diventare figli del Dio Amore e perciò stesso fratelli fra di loro. Anche se gli uomini adorano Dio in religioni diverse, il cristianesimo, nel Vangelo di Gesù Cristo, li chiama a vivere in una stessa famiglia, la famiglia di Dio.

Il terzo millennio sarà il millennio della collaborazione fra le religioni nella promozione della solidarietà, della giustizia e della pace fra gli uomini.

I musulmani aspettano la salvezza per la fine dei tempi. Il Mahdi verrà con il Cristo a stabilire il regno della giustizia sulla terra. Il cristianesimo, al contrario, annuncia che la salvezza è iniziata con il Cristo ed è una realtà quotidiana che si realizza quando gli uomini vivono "come figli di Dio e come fratelli e sorelle di uno stesso Padre celeste" (Instrumentum laboris, n. 28). È questo il messaggio che dobbiamo proclamare "opportune et importune" ed è a questo messaggio che siamo chiamati a convertire i musulmani e i seguaci delle altre religioni. E lasciamo a Dio il tempo e il momento che egli ha fissato, quando potremo dire ai musulmani, battezzandoli nell'acqua e nello Spirito Santo: "Muhammad Ali, io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen".

3. Il dialogo ecumenico e l'inculturazione. Nell'Asia occidentale non esistono solo i cattolici. Vi sono anche tre patriarcati greco-ortodossi (Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme), due catholicosati e due patriarcati armeno-ortodossi (Etchmiadzin, Cilicia, Costantinopoli e Gerusalemme) e un patriarcato siro-ortodosso (Antiochia) e un patriarcato assiro. L'Instrumentum laboris non ricorda queste chiese e si limita ad alludere, nel n. 39, all'"unità culturale" che sentono fra loro "nell'Asia occidentale i cristiani, cattolici e ortodossi.... il sentire di condividere elementi importanti derivanti da una tradizione ecclesiale comune" (n. 39).

È su questa tradizione ecclesiale comune che vorrei insistere e affermare che l'inculturazione che oggi viene richiesta per le chiese dell'Asia orientale è già stata realizzata nelle chiese dell'Asia occidentale nel corso del primo millennio. Le divisioni che hanno separato le chiese nel primo millennio e nel 1054 non sarebbero forse dovute in gran parte all'incapacità delle chiese di comprendere il fenomeno dell'inculturazione? Non si riusciva ad ammettere che la stessa fede potesse essere espressa diversamente nelle diverse tradizioni: latina, greca, sira, armena. Non si riusciva ad accettare che la chiesa fosse amministrata diversamente in Oriente e in Occidente. Oggi, la soluzione delle divisioni delle chiese va ricercata nell'accettazione della diversità delle espressioni della stessa fede e della diversità delle tradizioni ecclesiali.