DOSSIER CENTRALE

NEL NOME DEL PADRE E DEL FIGLIO E DELLO SPIRITO

Diego Carminati
Ass. “Dehoniani” di Albino

Nel nome del Padre

Uomo della relazione - Tutti voi sapete cosa sia la saudade. Quella particolare forma di nostalgia struggente e malinconica che ogni brasiliano prova per i colori, gli odori, i paesaggi della sua terra, sorgente di tanta musica e poesia di quel paese.

Vorrei usare, oggi, il termine Relazione indicando con esso l’oggetto della nostra personale saudade, la nostalgia profonda, drammatica e vitale, per l’abbraccio di Dio.

Il dehoniano vive un rapporto intimo di contemplazione del Padre. La relazione col Padre è il paesaggio dell’anima dehoniana, la sua casa, la sua dimensione più vera e realizzante, la sua identità profonda.

Giovanni, nel prologo del suo vangelo,1 definisce il Figlio in quanto tale solo in relazione al Padre. “In principio era il Verbo... E il Verbo era presso Dio”. In greco l’espressione indica un essere rivolto a, un essere faccia a faccia col Padre, l’avere il Padre come termine ultimo di riferimento, senza il quale ogni cosa, ma direi il Figlio stesso, mancherebbe di senso.

Ritorniamo ai vangeli.

Gesù fa ogni cosa nel nome del Padre, lo chiama confidenzialmente con termini infantili, insegna a chiamarlo con questo nome, ne canta le misericordie, l’amore, l’intimità: “Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa...”; “Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me”.2

Il Figlio rivela l’atteggiamento dei figli. L’uomo dehoniano è colui che sperimenta, prega e vive questo rapporto di tenera confidenza col Padre.

I profeti avevano già avvertito il senso originario della predilezione divina. Leone Dehon è con loro quando coglie nell’amore la cifra di questa elezione.

Tutta la storia del Primo Testamento è la storia di una ricerca appassionata dell’amata da parte dell’amante. Valga per tutti la splendida lezione del Cantico. Non a caso è il libro più vicino alla sensibilità umana nel parlare d’amore.

Ma si sprecano le pagine che cantano la fedeltà incondizionata, l’appartarsi di Dio con l’uomo, la sua progressiva, struggente educazione all’amore di un popolo che nega e tradisce, la compagnia testarda come può esserlo solo chi non sa fare a meno di colui che ama.

Forse è proprio per questo che chi ha raccolto i testi sacri ha posto tra le primissime immagini quella bellissima di Dio che, dopo aver creato, passeggia nel giardino. È un Dio che cerca l’uomo. Il suo grido: “Dove sei?”3 risuona ancora nel cuore di ogni Adamo del mondo, perso dietro le immagini sfolgoranti di improbabili successi, dietro l’apparente appagamento del denaro e delle cose, dietro l’inganno di bastare a se stesso.4

Penso che il dehoniano debba essere nel mondo colui che ripropone la meraviglia di un Dio che insegue l’uomo, l’uomo dell’alleanza sponsale col Dio-amore, colui per il quale nulla ha senso se non appartiene intimamente a quell’essere faccia a faccia col Padre, colui che realizza il proprio “essere-immagine-di-Dio” divenendo trasparente riflesso della sua gloria.

È nello sguardo del Padre che questo rapporto si realizza, nel lasciarsi scrutare da chi ci conosce nel profondo e sperimenta di noi le zone più nascoste anche a noi stessi.5

L’abbraccio benedicente del Padre diventa lo spazio della possibilità umana: tutto ciò che siamo lo siamo unicamente in virtù di questo abbraccio.

Noè fu benedetto da Dio, e questa benedizione valse agli uomini la vita e l’impegno di Dio alla fedeltà.6

Abramo fu benedetto da Dio, e questa benedizione fece da casa alla speranza più insensata: dalla sterilità una discendenza più numerosa delle stelle del cielo.7

Il dehoniano è colui che vive della benedizione di Dio, rivestito delle sue attenzioni e del suo prendersi cura. È l’uomo della benedizione nella sua duplice valenza: benedetto e benedicente.

Rivestito delle attenzioni del Padre, è l’uomo che riempie di attenzioni il mondo.

Abbracciato dalle misericordie di Dio, sa abbracciare le ferite e le povertà degli uomini.

È uomo che riconosce la fonte di ogni vita, di ogni canto. È uomo che rivive ogni giorno lo stupore del suono dei passi divini nel giardino.

È uomo che accoglie con fiducia il dono che Dio fa di sé. E in questo riconoscere consiste l’atteggiamento di fede. Quella fede che ha permesso ad Abramo di lasciare tutto e partire, a Mosè di liberare, a Gesù di morire.

Il dehoniano dovrebbe essere colui che, come Abramo, Mosè, Gesù, sceglie nel Padre, si impegna col Padre, è responsabile per il Padre.

È uomo della fede, intesa come atteggiamento che dà la misura della sua intimità con Dio, del suo essere rivolto a.

L’alterità di Dio diventa il paradigma di ogni definizione di sé.

Non posso dirmi se non nel Padre.

Non posso amare, soffrire, sperare, lavorare, se non alla luce di questa relazione che mi definisce.

Solo allora il mio operare diviene significazione di Dio, allegoria dell’amore resa viva e vitale nella carne del tempo. Penso sia questo il senso del Regno che Gesù portava.

E penso sia questo che Leone Dehon intendesse quando parlava di abbandono, di fiducia incondizionata come risposta alla fedeltà divina.

È la necessità stessa dell’amore a garantire il nostro lasciarci portare.

Dio non può non amare, perché ha scelto così: e ciò ci fa sicuri della sua tenerezza.

La Parola ancora ci illumina: “Io sono tranquillo e sereno. Come un bambino nutrito e accudito in braccio a sua madre...”.8

Ma non è un abbandono accomodante.

La libertà di Dio impegnata dall’amore, impegna la nostra libertà ad amare.

Leone Dehon leggeva l’abbandono come disponibilità libera e consapevole al progetto del Regno, citando il brano della lettera agli Ebrei: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecce venio...”.

L’Ecce venio del dehoniano deve rimanergli scolpito nella carne, perché solo la carne autentica l’amore. In fondo è la logica dell’incarnazione.

Quella col Padre non sarà allora una relazione consolatoria o rassicurante. Sarà invece, e l’esperienza del Getsemani e della croce lo insegna, vivere solitudini e dubbi laceranti, ma anche un aprire orizzonti di impegno impensati, battere strade di solidarietà sempre nuove.

Poiché è proprio nell’apparente assenza del Getsemani che il Padre rivela l’infinito potere liberante della sua tenerezza.9

Uomo della riconciliazione - A questo punto trova posto e senso anche un atteggiamento che, negli ultimi anni, ha suscitato qualche difficoltà di comprensione all’interno della spiritualità dehoniana: la riparazione.

La rilettura di questa dimensione, tipica del pensiero di Leone Dehon, ha liberato il campo dai fraintendimenti che nascevano da un’interpretazione dell’espiazione basata sul modello della giustizia penale: Gesù sarebbe morto in quel modo, perché non ce n’era un altro che potesse soddisfare l’offesa fatta a Dio dall’uomo dell’Eden. La colpa originaria poteva essere espiata solo da Colui che fosse in possesso delle prerogative divine, per rendere valida e perenne l’espiazione.

Come se Dio fosse assetato di vendetta più che d’amore.

Se l’uomo vive all’interno della relazione col Padre, la benedizione divina ne fa un uomo riconciliato.

Il dehoniano è l’uomo della riconciliazione, ricostruito dalla gioia di Dio e perciò rappacificato e reso beato dalla sua tenerezza e dalla benevolenza.

La ri-creazione che lo sguardo di Dio sull’uomo, sguardo eterno d’amore, produce è appunto il senso profondo della riparazione. È l’amore del Padre che ricostruisce le fragilità umane, le divisioni profonde del cuore, i frammenti del peccato, restituendo all’uomo quell’immagine originaria di creatura amata e amante.

È ancora il Genesi a venirci in aiuto: “Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine...”.10 La riparazione penso consista nell’opera di ri-facimento, di ricostruzione di questa identità originaria.

Riparare è, allora, ricostruire l’uomo.

È il processo di “umanizzazione” che ci vede coinvolti in prima persona con la nostra disponibilità e solidarietà11 verso ogni uomo.

Ri-facciamoci uomini per ri-fare l’uomo.

È questa l’urgenza del nostro tempo, sempre più avviluppato nelle maglie di uno scientismo tecnologico che svuota di senso le espressioni più profonde della nostra umanità. Basti citare l’ultima proposta, in campo clinico, dell’utero artificiale.

Ma mille sono le situazioni di degrado dell’individuo che, quotidianamente, si affacciano dalle pagine dei giornali o dagli schermi televisivi o che sperimentiamo di persona. Penso alla pedofilia, alle violenze, alla disonestà diffusa che possiede ormai tutti i crismi della liceità.

Potete allungare la lista a piacimento.

Il dehoniano deve, secondo me, essere in questi tempi l’uomo delle beatitudini, della pace profonda in Dio, l’uomo riconciliato e riconciliante, cooperante col Padre a fare, ogni momento, l’uomo.

Ancora la Parola è ricca di spunti.

Ezechiele garantisce dell’impegno di Dio: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati... vi darò un cuore nuovo... toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”.

E ancora: “Ecco, io faccio entrare in voi il mio spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete”.12

La relazione col Padre ci trasforma radicalmente, restituendoci forma e bellezza, pelle e nervi.

Faccio notare come la Parola insista su una dimensione molto concreta.

Realmente, “nella carne”, per usare l’espressione biblica, lo Spirito del Padre ci rifà uomini.

Il dehoniano è allora investito del compito di rifare, far rivivere, nella carne, quei cadaveri umani che popolano il nostro tempo.

Questo significa ripensare e riproporre con forza un’etica a servizio dell’uomo, liberante e appagante.

Ma anche ripensare la famiglia, la politica, i rapporti sociali, il lavoro, la scuola...

Proviamo a riprendere in mano il vangelo e vedere quale idea di uomo animava l’operato di Gesù, quale uomo incontrava e verso quale umanità voleva portarlo.13

Nel nome del Figlio

Uomo del “segno” - L’impegno della ri-parazione ci conduce al cuore della riflessione.

Qual è il luogo in cui la relazione del Figlio col Padre si è inverata?

... Qual è la misura della sua compassione?...

I racconti evangelici sono tutti focalizzati su questo evento: la croce.

È la croce di Gesù il “segno” della sua relazione filiale col Padre.

... È il cuore trafitto di Cristo l’apertura che rende possibile, ancora oggi, il nostro incontro con Dio...

Leone Dehon ha scelto questo segno come distintivo della sua fisionomia spirituale e ce lo ha lasciato come eredità.

La contemplazione del cuore aperto è stata per lui la fonte della sua instancabile attività.

Segnato da quel dramma della tenerezza, ha potuto insegnare gli uomini del suo tempo.

Il dehoniano è dunque l’uomo che vive questa duplice valenza della croce: segno della dedizione di Cristo, conficcato per sempre sopra ogni Golgota umano, e testimonianza fattiva di attenzione e solidarietà per il mondo.

Segnato per in-segnare, per vivere del segno.

Questa è la caratteristica specifica del dehoniano.

In questo senso, allora, siamo uomini della speranza.

Può sembrare strano, paradossale, che si parli di speranza proprio là dove riecheggia ancora il grido della disperazione del Figlio: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”14

Ma è proprio il Figlio che, sull’abisso dell’assenza del Padre, riscopre quella dedizione totale, incondizionata, che lo fa vivere come figlio: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”.15

È nel momento più tragico che la relazione viene ristabilita, che l’uomo Gesù, vittima della disumanità degli uomini, viene ri-parato dal Padre e restituito alla sua dignità filiale.

Il colpo di lancia non fa altro che squarciare il velo del tempio, rivelando quale sia, davvero, il volto dell’Altissimo.16

Se c’è da cercare il Padre, è a quella trafittura che dobbiamo guardare: “Chi ha visto me ha visto il Padre...”.17 Leone Dehon l’aveva capito: “Il mio cuore è il centro della mia umanità; venire al mio cuore è il mezzo per possedermi tutto e per possedere, nel medesimo tempo, Dio, perché io sono l’Uomo-Dio”.18

La sua contemplazione della Parola gli aveva fatto intuire che solamente lì tutto veniva chiarito.

Lì il Dio del Primo Testamento viveva la sua epifania ultima. In una sua conferenza, p. Duci lo sottolineava: “Il fianco del crocifisso è diventato la fontana promessa da Dio per gli ultimi tempi, aperta al culmine della storia della salvezza, in cima al monte, in pieno petto del Messia. Quel colpo di lancia, che firmava l’eliminazione dell’inviato di Dio e la fine della sua opera, veniva invece, contro ogni aspettativa dei calcoli umani, ad aprire su di noi la sorgente della Vita di Dio. Non fu certo il soldato ad aprirla... fu Dio ad aprirla, da dentro, nel fianco lacerato del suo Figlio. La apre per farne uscire lo Spirito, dono della Trinità al mondo”.19

Lì l’intera vita del Figlio veniva inverata.20

Solo lì la vita di ogni uomo può, ultimamente, ripensarsi.21

La speranza della croce non è altro che il suo caratterizzarsi come profezia, intesa come lo sguardo sugli uomini e sul mondo che parte dal cuore dell’Appeso.

Solo dall’alto della croce è possibile comprendere la storia.

Solo reinterpretando ogni avvenimento umano, l’economia, il costume sociale, la politica, dall’angolo visuale che è il cuore aperto è possibile poter dire ancora qualcosa sul mondo.

Il dehoniano è l’uomo della speranza e della profezia perché è abilitato dalla frequentazione della croce a parlare.

L’abitare nel cuore del Padre, dona all’uomo una sorta di comprensione divina delle cose: in questo comprendere, che è al tempo stesso amore e trasformazione, sta la profezia a cui siamo chiamati.

Tutto ciò è possibile, però, solo adorando.

Caratteristica della spiritualità dehoniana, voluta fortemente da Leone Dehon stesso, è stata l’adorazione eucaristica, che egli intendeva esattamente come la contemplazione del dono del Padre in Cristo sulla croce, focalizzata nel cuore trafitto.22

Lo squarcio della lancia non è solo l’unica via per giungere al Padre, ma è anche la sola strada che la misericordia del Padre ha voluto percorrere per giungere all’uomo. E la sola che continuerà a percorrere.

Non c’è Dio all’infuori di quello che si rivela nella croce di Cristo.

Non c’è Padre, se non nel cuore aperto del Figlio.

Il dehoniano, contemplando il dramma di questa relazione d’amore, ne è come assorbito all’interno e, dall’interno del cuore stesso di Dio, è reso capace di profezia e testimonianza concreta.

In ascolto della Parola incarnata, l’uomo diventa capace di parole che esprimono in profondità il senso della fatica umana.

La croce è il sigillo... col quale il credente è segnato per sempre, marchiato a fuoco nel cuore, per cui non può più fare a meno di Dio.

Geremia lo esprime molto bene: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre... nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”.23

È ora che torniamo ad esprimere l’urgenza della croce e dell’amore.

Con forza.

Non dobbiamo più avere paura di dire la Parola del Padre agli uomini.

È la parole che frantuma i nostri egoismi, certo.

È la parola che scava abissi di inquietudine nel nostro spirito, sicuro.

Ma è parola liberante e realizzante che ci restituisce il volto originario del Dio compagno dell’uomo, il nostro essere fatti di Lui e per Lui.

Uomo della parola - Il dehoniano deve essere allora l’uomo delle parole.

Non di quelle insignificanti e vuote, come le tante che riempiono spesso i mass-media o addirittura le nostre conversazioni.

Ma della parola che veicola significati validi, risposte autentiche per il mondo di oggi.24

Leone Dehon è stato un forte comunicatore e, tra gli altri, ha scelto proprio la comunicazione come stile di apostolato.

Ha aperto scuole, fondato giornali, si è inserito attivamente nel dibattito culturale del suo tempo per essere voce autentica tra le voci, parola sensata tra parole.

Non possiamo sottrarci alla necessità di dire.

Torniamo a raccontare l’uomo.

Così come Dio lo ha pensato.

Così come Dio l’ha voluto.

Così come Dio lo ama.

Siamo destinatari di un annuncio che interpella la nostra responsabilità ad essere a nostra volta mittenti di messaggi chiari, forti per l’uomo contemporaneo.

E non si tratta, badate bene, di aggiungere bla bla a quello che già circola.

Viviamo ormai in un’era di globalizzazione, dove Internet e satelliti moltiplicano le parole e le relazioni. L’uomo non ha mai parlato tanto come in questo tempo. Eppure, ed è paradossale, mai come in questo tempo sta tradendo uno dei suoi compiti primi, affidatogli da Dio quando passeggiavano insieme nel giardino, quello cioè di dare un nome alle cose.25

Il dehoniano è l’uomo delle parole nuove, l’uomo dei nomi; è poeta nel senso pieno del termine, colui che crea con la sua parola, così come Dio disse e le cose furono.

Non è parola vuota, quella della testimonianza.

Non è fiato.

È realtà che si fa nella storia e che acquista, per questo, l’identità profonda voluta dal Padre.

Così come la prima parola di Dio diede forma all’informe, realtà al nulla, la parola del dehoniano ha il compito di restituire figura e sembianza umana all’uomo sfigurato, di restituire vita alle situazioni di morte, attraverso parole che dicano, all’uomo smarrito di oggi, quale sia la sua vocazione e il suo destino.

E come la Parola iniziale fu pronunciata sull’abisso,26 ogni nostra parola dovrebbe essere nutrita di silenzio.

Può sembrare ancora un paradosso, ma la storia di Gesù testimonia che le parole più importanti nascono da prolungati silenzi. Egli, che era la Parola del Padre, si appartava spesso sul monte e si ritirava in silenzio.

Ungaretti scrisse una poesia per dire la novità di parola del poeta: “Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde. / Di questa poesia / mi resta / quel nulla / di inesauribile segreto”.27

La parola nasce là dove l’uomo ha il coraggio di sprofondare nell’abisso segreto della vita. Da lì riemerge, carica di significati per l’uomo.

L’inesauribile segreto del dehoniano non è altro che il mistero del cuore aperto.

Da lì, dal silenzio di questa contemplazione, nascono le parole della nostra testimonianza che possono dare ancora senso all’uomo contemporaneo.

Per Gesù, questa deve essere stata l’esperienza di Nazareth, tanto cara a Leone Dehon.

Trent’anni di silenzio.

Trent’anni di immersione nel cuore del Padre per emergerne con parole di speranza per gli uomini della Galilea e della Giudea.

Trent’anni di macerazione, sofferta sicuramente, nel silenzio di Dio, per essere capace di pronunciare l’unica parola che non aveva bisogno di suoni: l’oblazione al Padre sulla croce.

“Ecco io vengo per fare la tua volontà...”.

Parola che è carne e sangue, impegno e lotta che non risparmia nulla.

Parola che è, finalmente, vita che si srotola lungo le strade degli uomini, nelle famiglie, sul posto di lavoro, dovunque, declinando nelle relazioni di oggi la stessa Parola che il Padre pronuncia da sempre: l’uomo Gesù,28 e in Lui ogni uomo.

Nel nome dello Spirito

Uomo delle relazioni - Arriviamo così a ciò che rende vera ogni parola: la vita.

Siamo partiti dalla relazione con il Padre che ci costituisce uomini, siamo arrivati a ciò che, da uomini, viviamo ogni giorno: le mille relazioni della vita.29

Possiamo arrivare all’Altro, a Dio, solo passando attraverso gli altri.

Siamo uomini solo attraverso l’uomo.

Realizziamo in pienezza la nostra umanità solo in riferimento ai fratelli.

Anche molta filosofia di questo secolo ribadisce che l’altro è la categoria che ci definisce.30

Ma basta leggere il vangelo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.31

E ancora: “Ogni volta che avete fatto una di queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me”.

Giovanni commenta così nella sua prima lettera: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da Lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello”.32

Dopo Gesù, non possiamo più parlare al singolare. Il discorso cristiano è parola di fraternità e comunità.

È esempio vivo di comunione e dedizione.

Il dehoniano è l’uomo della carità che si fa storia.

Uomo della Parola che si fa gesto, lavoro, famiglia.

La relazione prima col Padre, vissuta nella contemplazione del cuore di Cristo, deve tradursi nelle relazioni con l’uomo. Guai a noi se dimenticassimo l’uomo.

Il nostro tempo ci sta dimostrando quale barbarie producono le scelte che non partono dall’uomo e non sono finalizzate all’uomo: fondamentalismi, biotecnologie, armamenti, politiche familiari distorte...

Il dehoniano deve compiere oggi una rivoluzione: in una società dominata dall’individualismo esasperato, riproporre il noi come unico spazio umano e vitale per l’uomo.

Restituire dignità ad ogni essere umano è la sfida del millennio che viene.

È stata la sfida di Gesù.

È stata la sfida di Leone Dehon.

È la sfida della Chiesa, oggi!

Abilitati in questo dallo Spirito di Dio che ci muove sulle strade degli uomini, siamo chiamati ad essere uomini dello Spirito, che vivono secondo lo stile di Dio, nutriti dalla Parola, fattasi carne in Gesù.

Realizzati dalla tenerezza del Padre, dobbiamo realizzare, cioè rendere reale, il mondo così come Dio lo pensa.

Il cuore trafitto è il progetto del Padre sull’uomo, che Leone Dehon ha fatto suo.

È nostro il compito di incarnarlo nella terra e nel fango della quotidianità, mettendoci in gioco, assumendo le nostre responsabilità in tutte le situazioni che viviamo.

Con quello spirito di fiducia e di abbandono presente in Maria che, chiamata a collaborare al disegno di Dio, risponde: “Ecce ancilla Domini... secondo la parola”.33

Uomini dello Spirito che diventano guide, maestri, o meglio, compagni dell’uomo sulla strada che dalla competizione porta alla compassione, dalla paura all’intimità, dalla chiusura alla fecondità della vita.34

Uomini dello Spirito.

Uomini “mattinali”, capaci di portare la freschezza della solidarietà e della fedeltà di Dio nel mondo, come rugiada al mattino.

Uomini del perdono, della vicinanza, che reclamano per sé e per gli altri la predilezione del Padre.

Uomini che, nello Spirito, riportano gli uomini a fare i conti col dolore, con la solitudine, con la morte.

Non per un gusto macabro o masochistico, ma per ridefinire, per il proprio tempo, i confini entro cui si gioca la nostra responsabilità.

Anche questa è fedeltà all’incarnazione.

Riprendere in mano ciò che è più nostro, anche le ferite.

Non potremo mai guarire l’uomo se non accettiamo di essere guariti dalle nostre ferite.35

La presa di coscienza della nostra fragilità è il presupposto imprescindibile di ogni servizio d’amore. Non potremmo mai comprendere e perdonare davvero i fratelli, se non abbiamo sperimentato il perdono del Padre per noi.

Solo guardando in faccia, con sincerità e coraggio, la nostra miseria personale, diventiamo capaci di accogliere la grazia e la misericordia di Dio e, quindi, di crescere nel dono ai fratelli.

Il dehoniano accoglie l’uomo nella sua interezza, lo ama, lo accompagna, perché sa che in questa vicinanza traspare l’attenzione privilegiata del Padre per ciascuno, perché sa che Dio ha scelto proprio lui per dirsi agli uomini.

L’uomo dehoniano deve avere il coraggio di stare con gli uomini, non esimersi dallo sporcarsi le mani nel fare il mondo, non declinare la responsabilità di giocarsi fino in fondo.

Nelle scuole, negli uffici, nelle famiglie, là dove siamo, certo. Ma non dimentichiamo i marciapiedi, le case per anziani, le periferie degradate e tutti i luoghi dove vive l’umanità spesso più sofferente.

Essere dehoniani è scelta senza ritorno.

Lo esprimeva Dehon stesso, aggiungendo alla povertà, alla castità e all’obbedienza, il voto di vittima.

Non c’è limite al darsi.

Non ci sono confini all’amore.

Essere uomini dehoniani è scegliere le relazioni con gli ultimi.

È ascolto delle solitudini.

È compagnia nella notte umana.

È com-passione delle lacerazioni.

È carezza sulle disperazioni.

È luce sugli abissi di silenzio e di paura che abitano spesso il cuore dei fratelli.

È direzione ai sentieri sviati.

È mano tesa nelle cadute.

È amore di carne e di terra, che costruisce, con pazienza infinita e costante, quel Regno della tenerezza al quale siamo chiamati a collaborare.

Conclusione

Il tentativo di questi anni è proprio quello di trovare strade concrete all’espressione di una sensibilità dello spirito che ci appartiene.

Angelo Bramati voleva fortemente una svolta della nostra Associazione in questa direzione di approfondimento del proprio rifarsi al carisma dehoniano.

Diversi gruppi, presentati nell’ultimo convegno, stanno studiando come realizzare per il laico un cammino possibile in questa direzione.

Non tiriamoci indietro.

Facciamo sì che la memoria del passato, il nostro ritrovarci, non sia solo occasione di festa e celebrazione di grazie, ma diventi conversione del cuore, stile di fraternità e condivisione per una quotidianità rinnovata nello Spirito.

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NOTE

1. Cfr. Gv 1,1ss.

2. Cfr. Lc 15,11-32; Mt 6,12.14-15; Gv 1,14-16; Gv 3,35; Gv 17,23-26.

3. Gn 3,9.

4. Un’interessante riflessione a partire dai precedenti versetti biblici è data da M. Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqaion, Magnano 1990.

5. Cfr. Ger 1,5; Sal 138.

6. Gn 9,1-17.

7. Gn 15,1-19.

8. Sal 130.

9. Sul significato trinitario della croce, cfr. F. Duci, Dio trinità d’amore - Introduzione alla spiritualità del Sacro Cuore, Bologna 1995/96.

10. Gen 1,26.

11. Sul senso della solidarietà, cfr. F. Duci, La solidarietà in Dio, Bologna 1996.

12. Ez 36,24ss; 37,6.

13. Sono rivelatori, ad esempio, i racconti delle guarigioni operate da Gesù.

14. Mt 27,46; Mc 15,34.

15. Lc 23,46.

16. Mt 27,51; Mc 15,38.

17. Gv 14,8-9.

18. L. Dehon, Sì all’amore nel cuore di Gesù, Milano 1985, p. 35.

19. F. Duci, Il cuore del Salvatore, Bologna 1997, p. 15.

20. In Lc 23,47 il centurione esclama: “Veramente quest’uomo era giusto”. E Mc 15,39 gli fa eco: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio”.

21. Cfr. il Tutto è compiuto in Gv 19,30.

22. “Noi non vediamo Gesù, ma egli c’è... abbiamo la fede per scorgerlo e il nostro cuore che si protende verso il Cuore di Gesù, divenuto più che mai un cuore di fratello e di amico” (L. Dehon, Sì all’amore nel cuore di Gesù, Milano 1985, p. 238).

23. Ger 20,7-9.

24. Rimando qui alla lettura e comprensione della Dei Verbum.

25. Gen 2,19.

26. Gen 1,1-2; Gv 1,1ss.

27. G. Ungaretti, Il porto sepolto, da “Vita di un uomo. Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 1969.

28. Cfr. Gv 19,5.

29. Una poetica riflessione spirituale sulla dimensione fontale della relazione è in M. Bellet, Incipit o dell’inizio, Servitium, 1997.

30. È la lezione di autori del ’900 come Heidegger, Levinas ed altri.

31. Mt 22,39.

32. Mt 25,40. E poi cfr. 1 Gv 2,9-11; 3,10.14-17; 4,20-21.

33. Lc 1,38.

34. Sono illuminanti, a questo proposito, i testi di H.J.M. Nouwen, Vivere nello Spirito, 1995; Nella casa della vita, 1996; Nel nome di Gesù, 1997; Invito alla vita spirituale, 1998; tutti editi dalla Queriniana.

35. Cfr. H.J.M. Nouwen, Il guaritore ferito, Queriniana, Brescia, 1992.