TEOLOGIA ASTORALE

BEATI GLI ULTIMI PERCHÉ AVRANNO UN FUTURO

Giuliana Martirani
Docente di Geografia politica ed economica

La primogenitura di Caino ovvero la sindrome del successo

L’attuale forma di tardo-capitalismo o di capitalismo selvaggio che autorizza l’arricchimento rapido del Nord e l’impoverimento del Sud rischia di diventare ora il tallone d’Achille di tutti i paesi che si sono gettati nella mondializzazione del libero scambio. Per tutto l’occidente industrializzato, infatti, non è più necessario nessun interventismo previo sul prezzo del mercato ma solo “deregulamentation” e liberismo puro. Un capitalismo cioè senza regole che solo privilegi la competitività, quindi la legge del più “forte”, la legge del “primo”, la “primogenitura di Caino”. Lo sviluppo dell’era post-industriale appare, quindi, sempre più fondato su un sistema fortemente liberista e sulla libera circolazione transnazionale del denaro che rende la merce denaro la più redditizia, la più mobile, la più staccata dai problemi del costo del lavoro e dell’occupazione, ed inoltre la merce più facilmente riconvertibile.

Questo tipo di sviluppo viene generalmente chiamato progresso e modernità a cui sacrificare le fasce e i popoli più deboli dei vari Sud d’Italia e del mondo, pagando il tributo necessario per l’avanzata inesorabile verso un improbabile futuro.

Ma il denaro è anche la merce più inquinata e meno trasparente dopo l’immissione nel mercato finanziario del denaro sporco proveniente sia dalle corruzioni politico-economiche che dalle criminalità organizzate del mondo. I numeri del denaro “sporco” delle criminalità transnazionali (Dossier Ansa per la Conferenza delle Nazioni Unite sulla Criminalità Organizzata, 1994) indicano che il giro d’affari complessivo delle criminalità organizzate di tutto il mondo viene stimato in 3.000.000 di miliardi di dollari contro un fatturato delle prime 500 società legali del mondo di gran lunga inferiore e pari a 5.000 miliardi di dollari, mentre General Motors, Ford, Exxon (1992) complessivamente lo avrebbero di soli 330 miliardi di dollari.

A questo punto si comprende quindi come non solo coloro che si battono per i diritti umani, contro vecchi e nuovi impoverimenti, contro i divari Nord-Sud e contro la disoccupazione, denunciano oggi un modello di sviluppo fortemente economicista, fondato sul capitalismo selvaggio e oligopolista, ma anche dall’interno stesso del mondo capitalista viene riproposto il problema dell’etica dell’economia. Mentre dal mondo ecologista sempre più viene l’appello ad uno sviluppo sostenibile, e altri, infine, propongono uno sviluppo decisamente non-violento.

Il vero sviluppo è allora quello che è centrato sulla persona umana e non sull’economia, sul primato del progetto politico inteso come bene comune e non sul primato dell’economia o, come sta ora avvenendo, sul primato addirittura della finanza.

Uno sviluppo a misura d’uomo oggi è uno sviluppo umano e non-violento che sappia instaurare un pensiero ed una prassi dell’in-nocentia umana e cosmica.

Ma questa in-nocentia è innanzitututto un fatto culturale e una trasmissione educativa.

Ecco perché negli anni ottanta-novanta sono nate correnti educative indirizzate all’educazione alla pace, alla non-violenza, allo sviluppo, alla mondialità, all'ambiente, alla legalità, all’interculturalismo, all’“altro”, alla soluzione non-violenta dei conflitti, alla socialità...

In-nocentia oggi significa, infatti, superare il complesso di “primogenitura” di Caino che rivendica per se stesso un pericoloso “esser primo”. Primogenitura che si esprime in un complesso di orgoglio nei confronti di se stessi, di superiorità nei confronti del prossimo, di sottomissione della natura, di dominio nei confronti dei popoli. Complessi che mettono in croce natura e umanità e non danno pace.

Verso un futuro sostenibile e umano

Bisogna allora porsi seriamente degli interrogativi per vedere se il modello di sviluppo attuale produce progresso vero o solo abbondanza per pochissimi e carenza per moltissimi.

Ci si deve chiedere innanzitutto se in un mondo così fortemente marcato dal problema del lavoro, il lavoro può essere organizzato diversamente dal modo in cui lo fa il mercato. Se, in un mondo così fortemente marcato dal problema dell’illegalità, l’economia può essere portata a valori etici. Se in un mondo così fortemente marcato da problemi ambientali e sociali, l’orientamento unilaterale dell’economia e della politica alla crescita, all’accelerazione e alla globalizzazione, coi suoi costi in termini di degrado ambientale e disgregazione sociale, può essere modificato.

E scopriamo allora che è possibile uno sviluppo che sia progresso umano vero, quello che a Dio piace perché rende la vita a tutti gli uomini, nessuno escluso, ma solo se mettiamo seriamente in discussione il nostro modo di concepire l’organizzazione dell’economia, se ripensiamo il futuro fondato sulla riconversione ecologica di tutte le attività umane, sulla giustizia nei rapporti sociali e tra le nazioni e su nuovi stili di vita. È possibile uno sviluppo davvero umano e solidale se varchiamo la soglia del III millennio con un’economia di giustizia, un’economia sociale, un’economia della reciprocità che rappresenta anche la terza via, molto voluta da fasce sempre più larghe della Chiesa, tra il liberismo sfrenato che spesso dà luogo al capitalismo selvaggio e la pianificazione di stato e le imprese di Stato, che spesso danno luogo alle tangenti e a disinteresse e lassismo da parte dei lavoratori.

Le idee guida che ispirano, non solo in Europa (Istituto di Wuppertal, Futuro sostenibile, EMI, 1997), ma in molte parti del mondo questa terza via sono:

1. Una giusta misura per lo spazio e per il tempo, tra cui anche le proposte di spazi comuni e di banche del tempo.

2. Un programma verde per il mercato.

3. Il passaggio dal sistema di produzione lineare a quello ciclico.

4. Vivere bene invece di avere molto.

5. Infrastrutture intelligenti.

6. Rigenerazione della campagna e dell’agricoltura.

7. La città come ambiente di vita.

8. La giustizia internazionale.

9. Il vicinato globale.

Giustizia sociale, sostenibilità economica ed equilibrio sociale, sia all’interno delle nazioni che a livello planetario, sono i contesti in cui la transizione al III millennio è in certo modo guidata dal settore No Profit.

La vita cristiana, sia essa religiosa che laica, diventa allora lievito di massa, diventa sale e luce della terra quando si trasforma in concreti progetti politici che mettano in atto nuove prassi economiche, quando fanno cioè passare l’umanità, in una sorta di Pasqua locale e planetaria, da una situazione di morte ad una di vita; quando cultura, educazione e scienza diventano agricoltura, sanità, industria, commercio, trasporti, finanze... corresponsabili e reciproche. Diventano un concreto stile alternativo di vita con cui vivere la città.

Il lavoro

Il lavoro può essere organizzato diversamente dal modo in cui lo fa il mercato? L’economia stessa può essere portata a valori etici? L’orientamento unilaterale dell’economia e della politica alla crescita, all’accelerazione e alla globalizzazione coi suoi costi in termini di degrado ambientale, disgregazione sociale e scontro tra i popoli può essere modificato? La nostra civiltà può ritornare ad essere “capace di futuro”?

Sì, se mettiamo seriamente in discussione il nostro modo di concepire l’organizzazione dell’economia. Sì, se rifondiamo il futuro su una sostenibilità fondata sulla riconversione ecologica di tutte le attività umane, sulla giustizia nei rapporti Nord-Sud, su nuovi stili di vita. Sì, se varchiamo la soglia del III millennio con un’economia di giustizia.

Il Terzo Settore, il settore delle imprese No Profit, quelle cioè che non sono settore pubblico ma non rispondono neanche alle regole dell’economia di mercato, ha già dato, in questi ultimi anni, delle chiare indicazioni nel senso di un’economia popolare, come economia di reciprocità ed economia di giustizia. In Italia le imprese No Profit, che cioè generano utile per un valore aggiunto di 25 mila miliardi, ma non li ridistribuiscono ai loro soci o ai titolari del capitale reinvestendoli invece nelle organizzazioni stesse, sono più di 52 mila, con 428 mila persone retribuite, 273 mila volontari e 16 mila obiettori di coscienza.

È un’economia popolare, comune anche ad altre nazioni, in forte espansione in Germania dove l’occupazione nel settore No Profit rappresenta il 3,7%, in Francia (4,2%), in Inghilterra (4%), in Giappone (2,5%), USA (6,8%). In Italia, tuttavia, sembra esserci ancora un sottodimensionamento rispetto agli altri paesi con una percentuale di occupati dell’1,8%, anche se dal 1980 al 1990 si è avuto un forte incremento, del 33%, nel settore servizi sociali, alla persona e alla comunità, di gran lunga superiore a quello di USA +26%, Giappone +25%, Francia +19,4%, Germania +17,7%, Inghilterra +18,8%, paesi che, tuttavia, avevano iniziato in anticipo di decenni questo tipo di economia. Giustizia sociale, sostenibilità economica ed equilibrio Nord-Sud, sia all’interno delle nazioni stesse che a livello planetario, sono i contesti in cui la transizione al III millennio è in certo modo guidata dal settore No Profit. E le idee guida che ispirano il Terzo settore sono certamente: una giusta misura per lo spazio e per il tempo (da cui anche le proposte di spazi comuni e di banche del tempo), un programma verde per il mercato, il passaggio dal sistema di produzione lineare a quello ciclico, vivere bene invece di avere molto, infrastrutture intelligenti, rigenerazione della campagna e dell’agricoltura, la città come ambiente di vita, la giustizia internazionale e il vicinato globale (Istituto di Wuppertal, Futuro sostenibile, EMI, 1997).

Educare alla civiltà della tenerezza

L’attuale sviluppo razional-mercantile, formulato cioè su un’ottica meramente economista dell’esistenza e su una cultura ed educazione a supporto di ciò, e fortemente marcato da un approccio meramente razional-illuminista, è sostenuto da una religione fortemente cultuale e legalista e da un’etica non fondata sulla solidarietà e la corresponsabilità reciproca bensì sulla sfida, sul successo e sull’esser primi. Questa fa da supporto ad un esasperato individualismo, il quale caratterizza anche le modalità di lavoro, difficilmente creativo e ancor più raramente comunitario, se non nella sua peggiore accezione che è quella della catena di montaggio.

I complessi di orgoglio di sé, di superiorità sul prossimo, di sottomissione della natura e dominio dei popoli, l’umanità li può perdere recuperando i grandi valori di tutte le tradizioni religiose e attraverso una reinterpretazione previa dei concetti di tempo, silenzio, autolimitazione e lavoro (G. Martirani, La civiltà della tenerezza, Ed. Paoline, 1998).

La rielaborazione dei concetti di tempo, silenzio, autolimitazione e lavoro deve condurre alla produzione di una cultura ed un’educazione che crei vita e non morte, perché “due sono le vie - ricorda la Didaché - una conduce alla vita e una alla morte”.

Solo, infatti, attraverso una reinterpretazione culturale e una trasmissione educativa di un diverso concetto di tempo possiamo recuperare e trasmettere il diritto al futuro. Uno sviluppo nella giustizia e nella pace, una economia civile sono innanzitutto caratterizzati da una diversa concezione di spazio e di tempo con cui si fa entrare il passato e il futuro, e quindi i tempi di accumulazione (passato) e i tempi di durata (futuro), nelle programmazioni presenti, perché “la terra ci è data in prestito dai nostri figli”. Questo consentirà di passare dal valore di scambio - per il quale ha priorità il capitale, ovvero il patrimonio monetario, che ha però tempi di accumulazione e di durata di poche centinaia di anni - al valore di utilizzazione di K. Madden (O. Giarini, 1981 in G. Martirani, Progetto terra, 1989), per il quale hanno invece priorità i patrimoni naturali, biologici e culturali che hanno tempi di accumulazione e durata di centinaia di migliaia o decine di migliaia di anni.

Così come solo attraverso la reinterpretazione culturale e una trasmissione educativa del concetto di silenzio e ascolto dell’“altro” si può ritrovare il diritto alla propria identità pesonale e alla differenza dell’altro, comprendendo finalmente le ricchezze dell’altro, a cominciare da quegli “altri” per eccellenza che sono la donna e Madre Terra, perdendo così il complesso di superiorità e dominio, e aprendosi alla celebrazione di una Pentecoste planetaria finalmente fondata sull’“unità nella diversità”. Ciò significa fare silenzio con la nostra cultura e studiare, finalmente, e conoscere le culture altre. Significa non guardare con sufficienza la civiltà dell’oralità innanzitutto, e saper cogliere nelle culture e nel modo di esprimerle di altri popoli la modalità con cui il Creatore parla ad essi e attraverso di essi si rivela. Significa mettersi in ascolto della cultura femminile e delle sue modalità affatto peculiari con cui essa la esprime. Significa anche mettersi in ascolto della cultura della Natura, per imparare da essa a gestire la casa terrena, metterci cioè in dialogo con essa e passare così, dall’economia con cui noi imprimiamo i nostri principi e i nostri “nomoi”, alla casa terrena, all’oicos e all’eco-logia con cui esseri umani e terra, ritrovando il dialogo e l’oicos-logos, e restituendo così a Madre Terra la sua misteriosa fraternità con noi che solo Francesco seppe intuire quando la fece passare da cosa “usa e getta” a sorella e fratello.

È necessaria una reinterpretazione culturale e una trasmissione educativa del concetto di autolimitazione o povertà evangelica, che rende il diritto di essere tutti, veramente alla pari, figli di Dio e non più gli uni padroni e gli altri schiavi, i più forti accaparratori e predatori e i più deboli predati. Una autolimitazione che porta all’uso controllato e non più sconsiderato dei nostri cinque sensi, che sono anche lo strumento con cui possiamo liberare o schiavizzare le risorse della terra, trasformarle cioè in cose “usa e getta” o trattarle invece quali esse sono, da manufatti di Dio o, come direbbe Francesco, da fratelli e sorelle. Un’autolimitazione che ci faccia interrogare su: “vedere ogni cosa, udire ogni cosa, odorare ogni cosa, gustare ogni cosa, toccare ogni cosa” in una sorta di incontrollata kermesse di un corpo scoordinato dall’intelletto e guidato dall’impulso cieco e dalla coazione esterna piuttosto che da un intimo convincimento. Un’autolimitazione che faccia interrogare sul vedere la propria mente per denaro, immolare cioè il proprio lavoro al dio denaro, oppure recuperare il senso di un’autolimitazione che significhi innanzitutto non collaborazione col denaro e col successo.

È urgente una reinterpretazione culturale e una trasmissione educativa del concetto di lavoro perché attraverso di esso, che è l’unico strumento che noi abbiamo per completare la creazione e che quindi ci rende concreatori, possiamo servire la vita e non la morte, perdendo quella schizofrenia che spesso caratterizza le attività umane, con cui nelle proprie attività lavorative e scientifiche si serve mammona e nel temo libero, nelle parrocchie, nelle associazioni eccetera, si serve Dio.

È urgente, quindi, restituire speranza e futuro ai giovani restituendo ad essi una civiltà più bella e più buona, una terra dove scorre latte e miele per ciascun uomo e ciascuna donna sulla terra, una vera civiltà della tenerezza che sostituisca quella violenta che sta attanagliando il mondo. È urgente restituire ai figli del Nord e del Sud del mondo una civiltà della tenerezza che sia fondata su valori validi per tutte le razze, religioni, culture, nazioni: universalità e cioè considerare gli altri come se stessi; eternità ovvero considerare conseguenze a lungo termine e benefici a breve termine; unità che significa condivisione con altri valori autentici; onestà che è la attualizzazione dei valori così come vengono pensati ed espressi; libertà come partecipazione nelle decisioni e obiettivi per la vita propria e del prossimo; non-violenza ovvero massimizzazione dei valori sia nelle azioni che nei comportamenti, sia nelle strutture sociali che nell’ambiente naturale e nelle possibilità future (G. Martirani, La civiltà della tenerezza, ed. Paoline, 1998).