TEOLOGIA PASTORALE

ECONOMIA E TESTIMONIANZA CRISTIANA

 Giovanni Bazoli,
Banca Intesa

A partire dai pontificati di Giovanni XXIII e Paolo VI la Chiesa cattolica si è proposta, sia pure con sensibilità e approcci culturali diversi, di avviare e coltivare un “dialogo” ad ampio respiro con il “mondo moderno”. Con Giovanni Paolo II il confronto si è trasformato addirittura in una domanda di riconciliazione, che la stessa Chiesa rivolge al mondo.

Molti i temi oggetto di un tale dialogo. In questo articolo verrà messo in rilievo il dialogo sugli attuali sistemi economici, improntati ai principi liberistici, e sui problemi del libero mercato.

I passi per giungere a questo punto sono stati molti e non sempre facili. Né si può dire che anche oggi sia tutto chiaro.

Dalla prima grande enciclica sociale, la Rerum novarum, con la quale nel 1891 il papa Leone XIII prendeva atto delle questioni sollevate in campo sociale dai nuovi sistemi economici, alla Centesimus annus di un secolo dopo, il mutamento delle posizioni del magistero ecclesiastico su tali problemi è notevole.

Se la Rerum novarum ebbe una forte incidenza sugli effetti delle successive mutazioni del sistema capitalistico (che deve il suo persistente successo anche alla capacità dimostrata di correggersi e di adattarsi alle diverse situazioni, laddove il comunismo è rimasto pressoché inalterato dalla fondazione fino al momento del suo crollo), in questo secolo la nota dominante del magistero sociale può essere ravvisata in una presa di distanza, con accenti fortemente critici, sia dal sistema capitalistico sia da quello collettivistico. La contrapposizione ai due sistemi ha finito col manifestarsi in modo quasi simmetrico.

In tale periodo è stato costante e vigoroso il richiamo alla centralità dell’uomo, quale soggetto e fine di tutti i rapporti economici, nonché l’insistenza sul dovere di solidarietà (principio peraltro chiaro solo nel significato di un’attenzione doverosa verso i soggetti più deboli della società e verso i popoli più poveri). Senonché il passaggio dalle enunciazioni pregevoli, ma generiche, alle situazioni concrete lasciava lacune peraltro difficilmente colmabili. E, d’altro canto, quando si cercava di colmare tali lacune con suggerimenti applicativi di ordine tecnico e concreto, si avvertiva il rischio derivante dall’assenza di un’adeguata mediazione culturale.

Si può pensare all’attenzione che veniva insistentemente centrata sui problemi del lavoro e solo subordinatamente su quelli dell’impresa (mentre manca ancor oggi un’attenzione adeguata ai problemi del risparmio); a un certo favore mostrato verso pratiche assistenzialistiche; all’incertezza nella ricerca di utopistiche “terze vie”; alla tesi di un nesso di causalità necessaria tra lo sviluppo di alcuni paesi e il sottosviluppo di altri.

In questo modo la “dottrina sociale” non riusciva ad offrire agli operatori cattolici, nel campo economico, una chiara guida etica (ed è forse da riferire anche a tale motivo il fatto che essi non si siano distinti dagli operatori non credenti nella vicenda di Tangentopoli).

È soltanto con la Centesimus annus che, caduto il sistema comunista, risulta pienamente riconosciuto il sistema economico di mercato e viene valorizzato senza riserve il contributo al progresso sociale delle libertà individuali nel campo economico.

La capacità di assumere iniziative economiche, in cui si esprime l’attitudine di ogni uomo all’invenzione e alla creazione, è riconosciuta come contenuto di un diritto inviolabile della personalità e nel contempo come quel “capitale umano” che oggi costituisce la principale fonte di ricchezza nel processo economico.

Si deve a questa nuova visione, facilitata evidentemente dal fallimento storico del modello socialista, la presa d’atto dei risultati positivi conseguiti dal sistema capitalistico (anche se nei documenti della Chiesa si preferisce non usare tale denominazione ma quella di “economia libera di mercato”), nonché il riconoscimento, per la prima volta esplicito ed inequivocabile, dell’impresa e quello, che rappresenta una novità assoluta, del profitto.

A questo proposito a me pare che, in linea con questo nuovo modo di valutare la realtà economica, si potrebbe suggerire alla riflessione cristiana di scoprire nella logica che presiede al sistema di mercato ulteriori valori positivi: quello dell’uguaglianza dei “punti di partenza”, che costituisce il presupposto stesso della concorrenza; il valore della competizione e della “gara”, se intesa in una corretta accezione (che potrebbe trovare legittimazione nella stessa metafora cui ricorre talvolta san Paolo per indicare la vita cristiana); e soprattutto il valore del rischio. L’iniziativa economica non è concepibile senza l’accettazione del rischio connesso a ogni scelta imprenditoriale, ma il tema del rischio costituisce anche uno dei leit-motiv dell’annuncio cristiano: chi vuole salvare la propria vita la perderà (questo tratto significativo di un’etica della generosità è espresso efficacemente, come tutti sanno, dalla parabola dei talenti: parabola che vale per tutti i settori dell’esperienza umana, ma è applicabile in modo peculiare, persino nel suo significato letterale, nel campo economico). È in questo senso che la categoria dell’attività economica può ricevere un apprezzamento non solo nell’ordine etico, ma anche in quello religioso: così da giustificare, non esito a dirlo, una fiducia nell’assistenza della provvidenza, tutte le volte che l’impegno nell’attività economica sia generosamente motivato.

Ma il riconoscimento, da parte della Chiesa, dei risultati positivi del capitalismo nel mondo moderno non può evidentemente spingersi sino all’accettazione senza riserva di una teoria che consideri e giustifichi, quale motivazione esclusiva o comunque prevalente dell’agire umano nel campo economico, l’interesse personale ed egoistico.

Una visione pragmatica che ponga alla base di ogni comportamento individuale il vantaggio personale - e che può spingersi sino a configurare l’homo oeconomicus come elemento fondante di ogni disciplina umana (Becker) - sarebbe in totale opposizione al messaggio evangelico.

Questo ci pare veramente il punto fondamentale: nella concezione della Chiesa cattolica, la libertà di iniziativa economica viene recepita in una chiave diversa da quella utilitaristica che caratterizza oggi gli orientamenti prevalenti della teoria economica. Il magistero cattolico, cioè, enuncia e propone una concezione che potremmo definire “idealistica” dell’intrapresa economica, da cui deriva la possibilità di coniugare il principio della libertà con quello, reiteratamente richiamato, della solidarietà. Non per nulla uno dei più convinti sostenitori dei fondamenti etici del capitalismo, Michael Novak, mentre plaude con entusiasmo e tende ad appropriarsi delle nuove proposizioni a favore della libertà economica, contenute nel documento pontificio, dichiara peraltro impropri e inaccettabili i richiami alla solidarietà (e ai connessi possibili interventi dell’autorità politica), senza rendersi conto di snaturare con questa interpretazione la posizione della Chiesa.

Il problema che si presenta a questo punto è dunque quello di accertare la compatibilità o meno tra l’affermazione del libero mercato e il richiamo al dovere, sia individuale sia collettivo, di perseguimento dell’equità. Tale compatibilità va dimostrata, in prima istanza, sullo stesso piano morale dei comportamenti individuali, in quanto si tratta di verificare se l’imperativo categorico dell’efficienza, ossia l’osservanza delle sempre più stringenti regole volte al perseguimento del profitto, lasci ai comportamenti dei singoli operatori spazi di libertà per scelte generosamente ispirate. Ma è sul piano sociale e nell’ordine storico che occorre poi indicare gli strumenti - sia quelli di carattere tecnico, affidati alla ricerca della scienza economica, sia quelli di carattere giuridico, rimessi alla decisione dell’autorità politica - di raccordo tra il momento utilitaristico e quello dell’equità. In definitiva, si tratta di stabilire se le ragioni della solidarietà possano trovare collocazione e soddisfazione all’interno del processo economico, in quanto ad esso connaturate, ovvero costituiscano valori da considerare solo in una fase successiva, al fine d’imporre necessarie correzioni del sistema.

Questo è dunque l’interrogativo di fondo su cui siamo tutti impegnati a trovare risposta, essendo evidente che altrimenti tutte le altre enunciazioni che vengono ribadite in ambito cattolico resterebbero generiche e anche i reiterati richiami alla solidarietà e al cosiddetto principio di sussidiarietà rischierebbero di essere velleitari.

A me pare che questo rischio sia particolarmente grave oggi in Italia. Se è vero infatti che la complessità dei fattori costitutivi di una economia di mercato non ha finora consentito alla scienza economica di proporre un modello unitario di sviluppo, è altresì vero che negli ultimi anni stiamo assistendo nel nostro paese al tentativo - sostenuto da una parte dell’imprenditoria e dell’opinione pubblica ed episodicamente assecondato anche dal legislatore - di imitare il sistema anglosassone, contraddistinto da una logica assorbente di ricerca del profitto, in una prospettiva di sempre più breve periodo che, oltre a innescare processi acuti di tensione nei mercati, toglie alle stesse aziende il respiro necessario per impostare programmazioni strategiche.

Spazi per le testimonianze personali

Prima di formulare alcune considerazioni conclusive in merito alle questioni appena enunciate, non posso fare a meno di esprimere una valutazione, anche in base alla mia esperienza personale, su quale sia lo spazio di libertà che la logica del sistema economico vigente lascia alla responsabilità e alle motivazioni ideali dei singoli operatori.

Se guardiamo alla prova fornita sotto il profilo etico dagli imprenditori cattolici italiani negli ultimi decenni, dobbiamo riconoscere che essa è risultata alquanto deludente, così da indurre a una risposta dubitativa. Invece di riscontrare comportamenti esemplari, si è dovuto lamentare persino l’inosservanza di quei valori etici “minimi” che sono radicati nella coscienza comune e che sono codificati nelle leggi.

La diffusione di pratiche illegali nei rapporti tra affari e politica era accettata dai più come normale o comunque inevitabile, senza suscitare, dobbiamo riconoscerlo con franchezza e amarezza, una tempestiva attenzione e una forte reazione di rigetto da parte del mondo cattolico.

Malgrado ciò, io sono convinto che anche il settore dell’economia e della finanza, pur caratterizzato da una logica di dura competitività, non sottrae all’operatore cristiano lo spazio per una testimonianza di coerenza e di fede. Ed è in questo spazio di libertà di scelta che la fede può suggerire un supplemento di impegno ideale e morale che, nella sua dimensione più virtuosa, non può che esprimersi sempre in una difesa dei valori umani coinvolti, a qualunque titolo, nell’attività economica.

In questa prospettiva la responsabilità di chi deve operare delle scelte entro margini ristretti di compatibilità con le regole dell’efficienza è impegnata a rispettare vari ordini di valori umani: da quelli più noti e ampiamente trattati del lavoro e dell’occupazione a quelli, cui finora il pensiero cattolico ha prestato insufficiente attenzione, della tutela dei risparmiatori. Un altro banco di prova dove può essere misurata la libertà di scelte che incidono su importanti valori umani è quello delle crisi aziendali.

La coerenza con un’ispirazione cristiana impegna la coscienza dell’imprenditore e del manager nelle più diverse circostanze. Tra le tante che si possono richiamare, si pensi al tema esemplare della moderazione, a fronte delle tentazioni di smodati guadagni o di compensi che consentano di acquisire ricchezze aggiuntive alle retribuzioni, al rifiuto di ogni forma di speculazione (dove manchino cioè di operare i due elementi che giustificano il profitto, vale a dire il lavoro e il rischio).

Anche sul piano dei rapporti interpersonali, nell’ambito del proprio lavoro, i cristiani troppe volte non si distinguono dagli altri. Accanto ai casi ampiamente conosciuti di conflitti di classe, esistono casi altrettanto gravi di conflittualità all’interno delle classi, dei gruppi, tra individuo e individuo. Rivalità interpersonali anche tra cristiani, dettate dall’ambizione e dalla ricerca del potere.

Ma voglio ripetere che, a mio avviso, la specificità dell’ispirazione cristiana può assumere i significati più importanti in quello spazio di discrezionalità, presente in ogni scelta economica, in cui la ricerca di soluzioni costruttive comporta un di più di impegno e di rischio. È questo un campo sterminato di esperienze dove il segno di un’ispirazione cristiana dev’essere sempre percepibile come invito al coraggio e alla speranza. Qui - a livello di singola persona, e talvolta nel segreto drammatico delle coscienze - si svolge e si svolgerà sempre di più l’incontro più importante tra il cristianesimo e la storia moderna.

Globalizzazione dei mercati e vincoli di solidarietà

Per quanto importante sia il significato della personale risposta di ciascuno al richiamo della solidarietà, risulta peraltro evidente l’insufficienza, se non la marginalità, delle testimonianze individuali rispetto alla soluzione dei maggiori problemi connessi al processo di globalizzazione dei mercati. A questo riguardo credo che sia soprattutto da richiamare l’attenzione su due aspetti: da un lato, l’esigenza di tutelare valori e beni di rilevanza generale (in quanto tali, fuori mercato e quindi indisponibili), dall’altro la protezione da accordare a talune categorie di soggetti (dai lavoratori ai consumatori), allorché vengano a trovarsi in posizione di debolezza nei confronti del sistema. La tutela di questi beni e di questi soggetti non può che passare attraverso un intervento regolatore dell’autorità politica.

Se si seguissero le versioni più estreme della teoria economica neoclassica, che trovano favore in una certa prassi del capitalismo, dovrebbero essere esclusi, al fine di non compromettere l’efficienza del mercato, interventi dell’autorità politica diretti a regolare l’attività imprenditoriale nella fase della produzione della ricchezza. Una regolamentazione sarebbe ammissibile, per finalità di riequilibrio sociale, solo nella fase successiva della ridistribuzione dei redditi (principalmente attraverso lo strumento fiscale) e nelle scelte relative all’allocazione delle risorse pubbliche.

Ma si deve ormai riconoscere che è difficile sostenere questo assunto, a fronte dell’accertata incapacità del mercato ad affrontare e risolvere da solo alcuni dei più importanti problemi sociali del nostro tempo: soprattutto quello dei costi sociali che il processo appena avviato di globalizzazione (alla lunga certamente benefico) pone drammaticamente in questa fase, data la situazione di enorme divario nella distribuzione del reddito e della ricchezza tra i diversi paesi del mondo: secondo statistiche ONU riferite al 1995, la distribuzione del reddito registrava per i sette paesi maggiormente industrializzati un valore medio del PIL di 25.830 dollari (19.121 per l’Italia); per i paesi in via di sviluppo di 2.610 dollari fino a un minimo di 1.000 per alcuni paesi africani.

Tra questi problemi è da ritenere centrale quello del lavoro, sia per le distorsioni alla concorrenza derivanti dalla diversità di costi della mano d’opera, allorché questi siano collegati all’assenza di adeguate misure di tutela della dignità e della sicurezza dei lavoratori in determinati paesi, sia per l’impossibilità di arginare gli imponenti flussi migratori della forza lavoro, se non con misure restrittive clamorosamente contrastanti con il “sacro” principio della libera circolazione dei fattori produttivi.

Sotto il primo aspetto, appare difficile accettare che il rimedio ai fortissimi differenziali esistenti nel costo del lavoro, soprattutto quando tale fenomeno dipenda dalla mancanza di tutela dei lavoratori, sia quello suggerito da una logica utilitaristica di mercato, che induce a dislocare la produzione in luoghi dove il lavoro costa di meno. L’esistenza di questa impropria alternativa altera, tra l’altro, anche il gioco delle relazioni industriali.

Sotto il secondo profilo, occorre sottolineare le drammatiche ripercussioni di ordine culturale e civile, tali da mettere in pericolo la stessa sopravvivenza di identità nazionali, che deriverebbero dalla mancata regolamentazione in sede politica dei flussi migratori (regolamentazione di cui, in sede europea, si è tentata una prima formulazione col trattato di Schengen).

Ma come non dire, a questo punto, che sarebbe importante che su tale argomento anche i credenti definissero con chiarezza, alla luce di una verifica critica delle ragioni esposte, il proprio orientamento? Invero, se è merito grande e prevalente del volontariato cattolico la prestazione di assistenza ai diseredati del terzo mondo presenti nel nostro paese, è mancato finora un lineare orientamento dell’opinione cattolica a sostegno dei ricorrenti tentativi dell’autorità politica di regolare, sia nel senso di porre limiti ragionevoli, sia nel senso di favorire una civile integrazione, i flussi di un’immigrazione caotica, disperata e per di più oggetto di una turpe speculazione.

E, per andare più a fondo di questa questione che tocca il tema fondamentale del diritto di ogni uomo di venire a esistenza in condizioni compatibili con il rispetto della sua dignità, come non esprimere perplessità su una cultura che si è impropriamente diffusa tra i cattolici (come, ad esempio, continua a rivelare ancor oggi la divisione di opinioni sul caso Moro), secondo cui la vita è considerata un bene assoluto, non sacrificabile mai a nessun altro bene e valore? I Vangeli non narrano la storia di un Uomo che ha sacrificato esemplarmente la propria vita?

D’altra parte, la constatazione dei gravissimi costi umani nonché dei potenziali effetti dirompenti connessi al fenomeno migratorio, non può non riproporre in modo drammatico, con riguardo alle regioni più povere della terra che non sono in grado di assicurare ai propri abitanti possibilità di lavoro e di sopravvivenza, il tema della natalità. Invero, il ribadire come inderogabile la difesa di ogni vita umana dal suo principio, ossia dal momento del concepimento, non può implicare un incoraggiamento alla procreazione quando al nuovo essere che verrà in questo mondo non si offrano condizioni di vita compatibili con la sua dignità di uomo.

Risulta altresì sempre più chiaro che l’esercizio delle attività economiche incontra un limite invalicabile nella necessità di proteggere e conservare per il futuro alcuni beni essenziali (public properties), a cominciare dalle risorse naturali e dagli equilibri ambientali. La tutela dei beni naturali, in se stessi limitati, di fronte al rischio di un utilizzo indiscriminato, non può certo essere assicurata dal libero mercato, ma esige una regolamentazione di tipo amministrativo. Anche in questo campo si stanno evidenziando alcuni fenomeni, come ad esempio le trasformazioni climatiche (che già oggi hanno assunto una rilevanza drammatica, ma che in futuro potrebbero assumere proporzioni apocalittiche), a causa dei ritardi nell’adozione di misure limitative delle attività produttive che, come l’ultima conferenza di Tokyo ha dimostrato, continuano ad essere ostacolate dalle forze economiche interessate.

Un altro bene prezioso, una delle risorse più importanti di un’economia che cerca di misurarsi in un mercato totale, cioè mondiale, è la conoscenza.

L’informazione è un valore che condiziona i mercati finanziari, alimenta la concorrenza imprenditoriale, modifica le strategie di importanti settori produttivi, influenza delicate scelte politiche (ad esempio nel settore militare) e addirittura costituisce l’oggetto contrattuale di grandi transazioni commerciali con i paesi del terzo mondo o in via di sviluppo. Se ciò è vero, non ci si può solo porre il problema della semplice gestione efficiente di tale bene in una prospettiva di mero utilitarismo, ma è necessario rispondere e porre rimedio alle preliminari questioni della più ampia produzione e distribuzione di tale bene per poterne garantire una migliore e forse più efficiente utilizzazione.

Tra l’altro, per questi nuovi beni e per tutti i valori sin qui richiamati, potrebbe forse ricuperarsi utilmente l’insegnamento classico che, per meglio tutelare il libero sfruttamento delle risorse, non abdicava alla necessità di orientarne i possibili effetti sociali, politici, perfino demografici, nella convinzione che dall’esercizio della libertà d’intrapresa economica dovesse derivare un progresso, non solo materiale, dei più.

In ogni modo, risulta evidente che su tutti i punti accennati la domanda di riconciliazione che la Chiesa rivolge al mondo moderno trova un nuovo e più ampio terreno di confronto, non più limitato ai richiami alla morale individuale, ma aperto alle sollecitazioni di un’etica collettiva consapevole e attenta ai valori e ai beni d’interesse generale.

Le nostre riflessioni, a questo punto, non possono che concludersi problematicamente, e cioè con un interrogativo che coinvolge tutti noi, perché riguarda lo stesso regime giuridico dei nostri diritti di libertà. Il principio di solidarietà può venire inteso come vero obbligo giuridico di rispetto, e non più soltanto come orientamento morale di attenzione, nei confronti dei beni di interesse generale? E può quindi interferire con l’esercizio utilitaristico dei diritti di libertà - soprattutto, ma non solo, nel campo economico - come se ne costituisse una seconda natura?

Se si potesse rispondere positivamente a questo interrogativo, la dicotomia libertà-autorità verrebbe riproposta su un piano non più di dialettica contrapposizione, bensì di innovativa integrazione. Non è esagerato sostenere che un’elaborazione di questo genere costituirebbe uno dei più fecondi contributi che il pensiero cristiano potrebbe offrire al mondo futuro.