DOSSIER CENTRALE

RELIGIOSI E LAICI NELLA CHIESA

RELIGIOSI E LAICI: CONDIVISIONE DEL CARISMA

Antonio Ascenzo

Congregazione Don Orione

Il tema si presenta, per non pochi tratti, come nuovo e inedito. Veniamo infatti da un millennio nel quale c’è stato poco, in campo ecclesiale, che non sia partito da un monaco, cui poi sono andati dietro sia il clero che il popolo. Invece ora, tutto ad un tratto, dalla coscienza del popolo di Dio emerge e si fa strada l’accoppiata “Religiosi e Laici”, che subito il magistero della Chiesa recepisce e rilancia (1). È una novità che richiede conversione, perché quella piccola congiunzione “e” posta fra i due termini - religiosi “e” laici - comporta delle implicazioni non ancora del tutto esplorate, specialmente sotto il profilo esistenziale e del comportamento. È una congiunzione che indica un rapporto paritetico tra religiosi e laici, perché entrambi “christififeles”, membra dello stesso corpo, chiamati e consacrati per la medesima comunione e missione, congiunzione che però unisce tra loro due entità diverse: religiosi e laici appunto.

Questa congiunzione, mettendo in relazione tra loro due diversità, ne provoca la capacità di interagire, di rispettarsi, di educarsi e valorizzarsi a vicenda, di collaborare per raggiungere la comune missione (obiettivo).

Considerazione teologiche sul rapporto Religiosi e Laici

Anima di tutto questo dinamismo è una precisa visione di Chiesa - l’ecclesiologia di comunione del Concilio Vaticano II - da cui non possiamo prescindere, se non vogliamo affrontare il tema su basi fragili, con motivazioni strumentali e senza prospettive.

La visione conciliare della Chiesa

È noto che i padri conciliari vissero attorno alla stesura della Lumen Gentium la loro più profonda, travagliata e tipica esperienza di Concilio che, giorno dopo giorno, si configurava sempre di più come evento dello Spirito scuola di dialogo e di disponibilità a lasciarsi cambiare dallo Spirito. Cosicché alla Lumen Gentium dovremmo accostarci non tanto e solo come a un documento, quanto piuttosto come al riflesso di un vivere ecclesiale. “La lezione della Lumen Gentium, scrive don Gino Moro, è che il massimo atto del magistero è scaturito dal massimo grado di discepolato. La Chiesa è in quanto avviene, in quanto consentiamo che essa, che ci trascende perché “è-di-Dio”, venga in noi e possa “sussistere in noi”à (2). Del resto, noi siamo Chiesa in proporzione dell’intensità della comunione, e non della lucidità della definizione: dalla carità nasce la Chiesa (“de caritate Ecclesia”).

Ora la coscienza, che la Chiesa ha di sé, si esprime anche attraverso la nuova e diversa architettura delle dimensioni costitutive del suo essere. Ed è utile qui richiamarle brevemente.

a) La fondazione trinitaria e misterica - La situazione pre-conciliare si caratterizzava per una forrte clericalizzazione, e quasi una papalizzazione della Chiesa. Di conseguenza la figura di Cristo, fondatore della Chiesa e capo del Corpo mistico, si visibilizzava e quasi si esaurive nei poteri del “sommo pontefice”, dei vescovi e dei sacerdoti. La rilevanza dello Spirito era minima e si affermava soprattutto sul filone delle rivelazioni mistiche, private e femminili, alimento delle devozioni popolari.

Oggi è una gioia cogliere nella Lumen Gentium la rilevanza che viene data alla Trinità (LG 2-4; AA 2-4). Scorrere il profilo delle tre Persone divine diventa una grande scuola di preghiera e di spiritualità. La novità è tanto nell’afflato teologico-spirituale, quanto nel fatto che tale ispirazione vuole esercitare i suoi influssi sulla visibilità, ossia sul modello storico di Chiesa. Si vuole cioè che la ricchezza trinitaria sia lo specchio su cui strutturare la comunitarietà della Chiesa.

b) La visione comunionale - Sotto l’influsso della concezione giuridica (societas perfecta) e del programma della controriforma, la Chiesa aveva finito con l’accentuare il suo tratto societario, enfatizzando il potere giuridico e magisteriale, e dando così luogo a relazioni di disuguaglianza. Il clero per un aspetto, e i religiosi per un altro, stavano in alto, mentre i laici erano in basso: discepoli rispetto ai maestri, incolti rispetto ai dotti, “mondani” rispetto agli “spirituali”.

Proprio il recupero della fondazione trinitaria e misterica della Chiesa, unitamente al nuovo contesto storico segnato dalle rivoluzioni sociali e dalla fine della concezione e della organizzazione aristocratica della società, ha consentito l’emergere di una concezione nuova: cioè che nella Chiesa, prima delle diversità, c’è l’universale uguaglianza di tutti i christifideles. Fondamentale uguaglianza nel senso che è la grazia battesimale che fonda e costituisce l’essere cristiani.

Si tratta di un capovolgimento di impostazione che non lascia più le cose come prima. Il superamento della logica verticistica, che parte dall’alto (e che spesso è solo criticata ma non superata dalla contestazione, che invece parte dal basso), si ha soltanto mediante la conversione alla logica comunionale.

Comunione però vuol dire relazioni umane rigenerate dal mistero di Dio: da tale mistero nascono, tale mistero riflettono, a tale mistero tendono e rimandano.Si tratta della socializzazione divina, che nulla ha a che vedere con la rivendicazione soggettiva, con la volontà di autonomia, con l’indebolimento dei vincoli e degli impegni relazionali. “Comunione” è parola molto nuova per la nostra cultura, così nuova che tutto il pensiero (teologia), tutto il vissuto (spiritualità), tutto l’agire (pastorale), tutte le strutture (organizzazione) sono oggi timidamente alle prime armi su questa strada.

Orbene, è all’interno di questo concetto misterico, trinitario e comunionale che si colloca, e perciò dobbiamo leggere la rivalutazione dei laici come soggetto ecclesiale a pieno titolo. Nascosti per lunghissimo tempo sotto il manto protettivo del prete o del monaco, visti come terzo stato senza cittadinanza ecclesiale vera e propria, rinascono finalmente con dignità propria (3). Si tratta di uno dei fatti più rilevanti e più gravidi di conseguenze per la Chiesa del terzo millennio.

c) La visione ecumenica - Interna alla visione comunionale, e come sua espansione, prende forma l’inversione di tendenza nel pensare le dolorose divisioni che anno infranto l’unità della Chiesa, con le due grandi ferite subite nel primo e nel secondo millennio. Dopo la fase polemica e di contrapposizione, le Chiese stanno battezzando se stesse: - nelle proprie ferite e attese; nel proprio pensare e pregare - tuffandosi nel grande mare della Trinità e nella pienezza del Cristo, che nessuna confessione esaurisce da sola. Si tratta di andare, insieme con Cristo, verso il Padre, sotto l’azione dello Spirito, e andare verso diversità riconciliate.(4)

d) La visione missionaria - Il Concilio vive un cambiamento radicale di atteggiamento psicologico e di ottica anche nei confronti del mondo, sfuggito ormai alla tutela protettiva della gerarchia ecclesiastica: alle categorie di superiorità subentrano quelle “pastorali”. Parola-chiave, questa, per capire e attuare la conversione che lo Spirito fa vivere ai Padri conciliari e che poi estende a tutta la Chiesa.

Nasce la Chiesa del dialogo, dello sguardo contemplativo sulle vicende del mondo. Una Chiesa missionaria di fronte alla quale si apre, oltre alle zone geografiche, lo spazio dell’uomo moderno e della nuova epoca post-cristiana, sua nuova terra di missione (5).

Dopo i sinodi sui laici e sui presbiteri quello sui religiosi

Dalla ecclesiologia di comunione del Vaticano II riemerge, in tutta la sua rilevanza teologica, sacramentale e storica, il popolo di Dio. Tutto insieme è mistero. Tutto insieme è sacramento. Tutto insieme è chiamato alla santità e alla missione, pur se in modi diversi e complementari, a seconda dei carismi e degli stati di vita.

Con la pubblicazione di “Vita consecrata” si è completato il trittico con cui il magistero della Chiesa ha voluto rivisitare e approfondire questa ecclesiologia di comunione, al fine di favorirne, oltre che una più profonda recezione, anche lo sviluppo in termini esperienziali e missionari. Lo afferma il Papa stesso quando scrive: “Questo sinodo (quello sulla vita consacrata), venendo dopo quelli dedicati ai laici e ai presbiteri, completa la trattazione delle peculiarità che caratterizzano gli stati di vita voluti dal Signore Gesù per la sua Chiesa” (6).

La comunione nella Chiesa infatti non è uniformità, ma dono dello Spirito, che passa anche attraverso la varietà dei carismi e degli stati di vita. Questi saranno tanto più utili alla Chiesa e alla missione, quanto maggiore sarà il rispetto della loro identità. Infatti ogni dono dello Spirito è concesso perché fruttifichi per il Signore, svilluppando la fraternità e la missione.

Andati ormai oltre lo stadio della “società cristiana”, ci troviamo di fronte alla presa di coscienza di una Chiesa che sente il dovere di mettersi in relazione con il mondo, le altre culture e le altre religioni, non più secondo la categoria di superiorità, ma secondo le categorie più bibliche del segno, della testimonianza e del servizio. E per fare questo avverte il bisogno che, al suo interno, tutte le componenti siano espressive e ricapitolative del suo credere, adulte e capaci di santità, di compiti, di ruoli specifici…

E così, dopo le ricapitolazioni del credere nelle due figure del ministro e del monaco, che sono state dominanti nella ecclesiologia “societaria”, lo Spirito fa emergere la ricapitolazione del credere anche nella figura del laico. E questa è una tendenza che ha caratteri di vera e propria novità; ma, nello stesso tempo, non è semplice da realizzare né privo di difficoltà.

Religiosi e laici: un abbinamento scomodo ma promettente

Già in apertura dell’esortazione Christifideles Laici, il Papa rileva come il cammino post-conciliare dei fedeli laici non sia stato esente “da difficoltà e pericoli”, e subito ne cita due:

- “la tentazione di riservare un interesse così forte ai servizi e ai compiti ecclesiali, da giungere a un pratico disimpegno verso le loro specifiche responsabilità, nel mondo professionale, sociale, economico, culturale e politico;

- e la tentazione di legittimare l’indebita separazione tra fede e vita, tra l’accoglienza del Vangelo e l’azione più concreta nelle diverse realtà temporali e terrene” (7).

Il Papa quindi non ignora che i pastori si trovano davanti a una sfida precisa: quella di individuare le strade concrete perché la splendida dottrina sul laicato, espressa dal Concilio, possa diventare un’autentica “prassi ecclesiale”.

In realtà, le due tradizionali figure ricapitolative del credere (ministri ordinati e religiosi) si sono trovate impreparate davanti all’emergere della terza figura, il laico. E probabilmente siamo noi, sacerdoti e religiosi, i primi responsabili di quell’interesse prevalente di certi laici per servizi e compiti ecclesiali che il Papa lamenta, e che porta non pochi laici “impegnati” (ma dove?) ad un pratico abbandono delle loro specifiche responsabilità nel mondo. Del resto non è pensabile che i laici in pochi anni si inventino una spiritualità conveniente e adatta al loro stato, al nuovo ruolo ad essi riconosciuto, e alle attese che si sono create attorno ai loro compiti. Questo è dovuto, almeno in parte, alla povertà delle sintesi precedenti e che possiamo riassumere così:

- povertà di laici(tà) nella Chiesa

- povertà di mondo nella spiritualità

- povertà di storicità nella vita religiosa.

Occorre perciò una visione alta (non corta, diffidente, impaurita, gelosa…) dei laici e della laicità. Il Papa, nella Christifideles laici, parte dalla contemplazione di “quest’ora magnifica e drammatica, nella imminenza del terzo millennio”, per valorizzare “l’ascolto, da parte dei laici, dell’appello di Cristo a lavorare nella sua vigna, a prendere parte viva, consapevole e responsabile alla missione della Chiesa” (8). Ma subito si preoccupa di individuare e approfondire quanto vi è di tipico, di specifico e proprio della loro vocazione; e scrive: “In forza della comune dignità battesimale, il fedele laico è corresponsabile, insieme con i ministri ordinati e con i religiosi, della missione della Chiesa. Ma la comune dignità battesimale assume nel fedele laico una modalità che lo distingue dal presbitero, dal religioso e dalla religiosa, senza però separarlo. Il Concilio Vaticano II ha indicato questa modalità nell’indole secolare (cf LG 32).

Una modalità - prosegue il Papa - la cui portata teologica è da approfondire “alla luce del disegno salvifico di Dio e del mistero della Chiesa”. Egli ricorda come tutta la Chiesa abbia una “dimensione secolare” (cf. discprsp di Paolo VI agli Istituti secolari, 2.02.1972) e come di fatto la Chiesa viva nel mondo anche se non è del mondo; e quindi passa ad esplicitare questa indole secolare dicendo: il mondo “è il luogo nel quale viene loro rivolta la chiamata di Dio”. Una condizione da considerare “non semplicemente come un dato esteriore e ambientale, bensì come realtà destinata a trovare in Gesù Cristo la pienezza del suo significato”. Perciò essi “non sono chiamati ad abbandonare la posizione che hanno nel mondo”, perché per i fedeli laici l’essere e l’agire nel mondo è una realtà non solo antropologica e sociologica, ma anche “specificamente teologica ed ecclesiale” (10).

Il mondo poi è il luogo nel quale i laici vivono la loro vocazione alla santità e nel quale, di fatto, si santificano. Una santità che è “intimamente connessa con la missione” e che, perciò, contribuisce sia alla “edificazione della Chiesa” che alla crescita del regno di Dio nella storia (11).

Il ruolo peculiare dei fedeli laici lo possiamo riassumere nei seguenti punti:

- cercare il regno di Dio trattando le cose temporali;

- rispondere alla chiamata di Dio per la santificazione del mondo;

- rendere visibile Cristo nel mondo con la testimonianza;

- illuminare e orientare la realtà verso Cristo.

Di fronte a questo ruolo, così specifico per ogni battezzato, come si pongono non solo i laici, ma anche i ministri ordinati, e i religiosi e le religiose?

Forse non farebbe male a nessuno rivedere, davanti a Dio e davanti alle urgenze della storia, la qualità del proprio contributo allo sviluppo e al consolidamento delle diverse vocazioni all’interno della Chiesa.

Il Papa ci indica una pista che è, insieme, di revisione e di apertura a nuove prospettive: “Nella Chiesa comunione, gli stati di vita sono così collegati tra loro da essere ordinati l’uno all’altro. Certamente comune, anzi unico, è il loro significato profondo: quello di essere modalità secondo cui vivere l’uguale dignità cristiana e l’universale vocazione alla santità, nella perfezione dell’amore. Sono modalità diverse e, insieme, complementari, sicché ognuna ha una sua originale e inconfondibile fisionomia e, nello stesso tempo, ciascuna si pone in relazione alle altre e a loro servizio.

Così lo stato laicale ha, nell’indole secolare, la sua specificità, e realizza un servizio ecclesiale testimoniando e richiamando, a suo modo, a sacerdoti e religiosi e suore, il significato che le realtà terrene e temporali hanno nel disegno salvifico di Dio.

A sua volta, il sacerdozio ministeriale rappresenta la permanente garanzia della presenza sacramentale, nei diversi tempi e luoghi, di Cristo redentore.

E lo stato religioso testimonia l’indole escatologica della Chiesa, ossia la sua necessaria tensione verso il regno di Dio, che viene prefigurato e in qualche modo anticipato e pregustato dai voti di castità, povertà e obbedienza.

Tutti gli stati di vita, sia nel loro insieme sia ciascuno di essi in rapporto agli altri, sono al servizio della crescita della Chiesa, sono modalità diverse che si unificano profondamente nel “mistero di comunione” che è la Chiesa, e si coordinano dinamicamente al servizio dell’unica sua missione” (l2).

Oltre che un’indicazione, in queste parole del Papa leggiamo anche una sfida per noi religiosi, che abbiamo nei laici, e nella loro immersione nelle realtà mondane, non una situazione da ignorare o da guardare dall’alto, bensì un interlocutore fondamentale per il senso e la leggibilità della nostra stessa consacrazione. E questo per il fatto che proprio i voti rimandano, più che a beni o realtà ecclesiali, a beni propri della situazione mondana: i beni economici, affettivi e politici; i beni dell’avere, dell’amare, del potere.

Solo all’interno di questo ripensamento profondo - da parte nostra e dei laici - del proprio modo di essere e di fare Chiesa, tutti insieme, comunità/popolo in missione nella storia, potremo muoverci nella esplorazione della nuova strada ipotizzata dalla condivisione del carisma.

Esigenza di formazione e di conversione

Prima per noi Religiosi

1. Ripensamento della vocazione e del ruolo della vita consacrata nella Chiesa e nel mondo - Quando, nel capitolo generale del l992, noi (Opera di don Orione) affrontammo per la prima volta il tema: “promozione della vocazione e del ruolo dei laici”, il primo obiettivo che ci siamo proposti come congregazione fu: la formazione specifica dei laici orionini su questi temi:

- la Chiesa e la sua missione in quanto popolo di Dio;

- la vocazione e il ruolo specifico dei laici nella Chiesa;

- riconoscimento e valorizzazione del carisma e del ruolo spirituale e ministeriale della donna nella famiglia, nella società e nella Chiesa;

- la vocazione-missione dei religiosi in rapporto a quella del clero e dei laici in seno alla Chiesa, in vista di una condivisione comunitaria della vita della Chiesa (13).

Gli altri obiettivi (formazione dei laici, vita consacrata laicale-secolare, strutture di animazione, apertura verso tutti i laici, unità della famiglia orionina) furono messi dopo, non perché meno importanti, ma perché si capiva che alla base della relazione nuova con i laici, o si metteva un serio ripensamento della vocazione e del ruolo dei religiosi, o si sarebbe dato luogo a una serie di equivoci che, alla fine, avrebbero deluso tutti.

Come ignorare infatti la situazione spirituale, culturale e psicologica di molti religiosi che in buona fede, e non certo per cattiveria, vedono:

- nell’apertura al mondo il rischio di un ritorno al mondo,

- nella partecipazione dei laici il rischio che le opere ci sfuggano di mano,

- nella revisione del proprio ruolo in termini di “animazione” l’abdicazione a compiti e stili di presenza che, per generazioni, avevano costituito il perno della propria identità e missione ?……

Per religiosi che hanno fatto del lavoro apostolico il fulcro della loro ascetica e che con generosità hanno guardato per anni solo “al bene da fare”, non è facile capire e accettare:

- che la missione di una congregazione di vita apostolica vada oltre le opere;

- che congregazione e opere non coincidano;

- che missione e opere non si identifichino,

- che il carisma del fondatore possa espandersi e risultare fecondo anche al di là delle opere.

Affrontare simili sfide, che disorientano non pochi religiosi e che creano un senso di smarrimento nelle comunità, implica evidentemente processi di formazione permanente, gestiti in un clima di creatività e di speranza (non già di rassegnazione); e perciò capaci di coinvolgere persone adulte (e in attività) in un ripensamento non individuale, ma collettivo e comunitario, della propria consacrazione e missione, in una società e in una Chiesa che cambiano.

Provvidenzialmente, lungo il cammino post-capitolare, non immediatamente bensì dopo opportuna preparazione, accaddero dei fatti capaci di trascinare più delle parole. Un primo avvenimento lo vivemmo nel l995, quando oltre l00 persone (tra religiosi, religiose e laici della Famiglia orionina) vennero coinvolte in una esperienza qualificata di “formazione al carisma”.

Fu lì che “collettivamente” ci si rese conto che “leggere il carisma insieme” (cioè al maschile, al femminile e secondo la modalità laicale), non solo aiutava a capirlo, a tradurlo, a trasmetterlo e ad amarlo di più, ma aiutava anche ad individuare le potenzialità che il carisma è in grado di liberare negli uni e negli altri, aiutava ad ascoltare le attese che il carisma suscita nei riguardi gli uni degli altri e a prenderne coscienza.

Si cominciò così a scoprire che prendere in considerazione le reciproche attese, era già mettere in atto e sperimentare una prima forma di collaborazione e di partecipazione.

Da quel convegno di formazione al carisma nacquero tre progetti, con relativi sussidi:

- uno per la formazione (iniziale) al carisma (14),

- uno per la formazione permanente dei religiosi (15),

- uno per la formazione dei laici al carisma (16).

Da quello stesso convegno scaturì anche una lettera programmatica del direttore generale (l9.12.1995) che diede il via alla nascita del Movimento laicale orionino, con la creazione e il coordinamento dei gruppi a livello internazionale, provinciale e locale.

La creazione di strutture agili e stabili per il coordinamento delle diverse organizzazioni laicali orionine, dipendenti compresi, il coinvolgimento qualificato, in queste esperienze, da parte di molti laici, la domanda, ai religiosi, di più “parola di Dio”, di più “parola del Fondatore”, e soprattutto il convegno internazionale del Movimento laicale orionino del 1997, … sono diventati, in un crescendo di visibilità e di efficacia, “parole forti” per i religiosi, riguardo a ciò che essi consideravano più gelosamente “proprio” (e perciò al riparo da intrusi), come la loro vocazione, il loro ruolo, le modalità della loro presenza nelle opere, la rilevanza della loro vita di comunità anche al di fuori della comunità, la capacità di rapportarsi col territorio e con la Chiesa locale.

Queste esperienze e questi fatti, più delle parole, hanno contribuito a svegliarci e a farci prendere coscienza che stiamo gradualmente, ma irreversibilmente, trasmigrando in un nuovo contesto, dove sempre più spesso ci imbatteremo in laici (assistiti, dipendenti, ex-allievi, amici, volontari, obiettori di coscienza, operatori pastorali…), che ci domanderanno non più e solo assistenza, strutture, organizzazione, un lavoro, uno spazio di servizio, ma anche e soprattutto spiritualità, itinerari formativi, condivisione del carisma e della missione, collaborazione nella programmazione e nella gestione delle opere.

Tutto questo, evidentemente, spiazza una certa figura di religioso e una certa visione delle opere apostoliche, e ci obbliga alla ricerca, al dialogo, alla conversione; dinamismi che inevitabilmente richiedono una riconsiderazione della consacrazione e della nostra specifica funzione e missione:

- dentro la storia, che ormai va pensata “teologicamente”, atteggiamento che comporta il passaggio dalla fuga all’inserimento;

- e dentro una Chiesa che ormai va pensata “mistericamente”, atteggiamento che comporta la valorizzazione della propria identità e funzione accanto e, per certi versi, a servizio dell’identità e della funzione dei ministri ordinati e dei laici.

2. Ripensamento delle opere - Il ripensamento della vita consacrata non si esaurisce nella conversione delle persone. Esso interessa anche le opere, perché queste non sono aziende, ma segni e traduzione concreta di una oassione caritativa, accesa dallo Spirito nel cuore del fondatore e di quanti lo seguono.

È assodato che i fondatori cercano il regno di Dio e l’irradiazione del vangelo nei cuori e nella società. E lo fanno traducendo una parola o un tratto del mistero di Cristo (o della Chiesa) in un intervento caritativo sulle urgenze che incontrano, cioè su quelle povertà che ai più sfuggono o non vengono considerate. E questo lo realizzano nei modi e nelle forme più varie.

Essi però, concentrati come sono sulle vere necessità della società e della Chiesa lette e scoperte alla luce di Dio, non accetterebbero neanche per un’ora la sopravvivenza di un’opera che non fosse più “mezzo evidente e valido” per il fine caritativo che interamente li assorbe.

I seguaci dei fondatori, invece, a volte si cristallizzano in modo ripetitivo sulle opere ricevute in eredità e, cambiati i tempi, non si accorgono che possono cadere in una seria contraddizione: smarrire il fine apostolico, per la conservazione di opere superate.

Sotto questo profilo, il carattere del nostro tempo (stato, società, cultura…) è implacabile, perché spiazza l’impostazione di molte delle nostre opere; e, più in radice, intacca il concetto stesso di opera. Da qui la domanda sulla validità delle singole opere, la fatica per il recupero della loro finalità apostolica e, qualche volta, la “crisi” di fronte ad opere care alla memoria di una congregazione, ma mediante le quali diventa impossibile predicare Cristo e dare una testimonianza credibile di Chiesa… Allora che fare?…

Oggi si comincia ad ammettere che le opere non sono automaticamente irradiazione dell’amore di Dio e della Chiesa verso i poveri, come succedeva quando ancora non esisteva lo “stato assistenziale”. Quando le opere diventano doppioni delle attività dello Stato, su quali basi e con quali criteri giustificarne la validità, il senso, il valore apostolico?

Da qui alcune domande che inquietano: le conserviamo solo come ricordo del passato o per libero e maturo discernimento? Dedichiamo energie e mezzi e tempo più alla loro gestione, oppure veramente alla loro trasparenza di significato, perché siano “pulpiti dell’amore di Cristo e della Chiesa per i poveri” ? (don Orione).

In un quadro di condivisione del carisma con i laici, queste domande sul senso e il significato delle opere diventano terreno di confronto e di discernimento molto delicato. Non ci farebbe male perciò ripensare assieme a loro l’indirizzo delle nostre opere, la loro organizzazione e gestione, la loro finalità apostolica e carismatica. Naturalmente, tutto questo va visto in un contesto di Chiesa che vuol essere missionaria (e quindi visibile e credibile nei segni che pone), e in un contesto di mondo secolarizzato (che perciò non regala a nessuno patenti di credibilità).

Una simile operazione riconduce ancora una volta al problema della nostra formazione, perché in essa traspaiono alcuni “caratteri di tendenza” che spesso condizionano il nostro modo di agire. Possiamo descriverli così:

- più esecutivo che animativo,

- più per ruolo che per obiettivi o fini,

- più di gestione che di progettazione,

- basato più sul fare che su messaggi evangelizzatori,

- più rivolto a chi viene da noi che all’insieme dell’ambiente,

- iscritto più nella logica di congregazione che nella logica di Chiesa,

- basato più sui singoli che sulla comunione e collaborazione,

- basato più su competenze che sulla spiritualità e la sua irradiazione,

- impostato più col criterio dei dipendenti che della partecipazione.

Il nodo sta nel fatto che per arrivare a un nuovo modo di presenza e azione delle comunità dovremmo passare attraverso la conversione dei nostri “modi di pensare e di essere”, con fasi progressive e ordinate di consenso. Si preferisce invece un ottimismo di rito, poco rigoroso e poco critico, anche davanti a questioni la cui soluzione appartiene … non al mondo della buona volontà, ma a quello delle grandi intuizioni.

La carta dei laici

Da quanto detto, emerge chiaramente che la questione della condivisione del carisma con i laici non può ridursi alla semplice aggiunta di forze fresche e copiose nella conduzione e gestione delle opere: quasi un’operazione subìta per il calo numerico dei membri, più che desiderata e preparata.

Il problema è più complesso. Se non lo inquadriamo in una logica di “Chiesa-comunione-in-missione”, ne compromettiamo tutta la ricchezza e il suo potenziale sviluppo. La condivisione del carisma con i laici, che si sta rivelando nella Chiesa come un dono dello Spirito, è prima di tutto un’occasione e una opportunità di crescita e di sviluppo per tutti: ministri, consacrati e laici. Se ci mettiamo in questa prospettiva positiva, “la vita consacrata non si limiterà a leggere i segni dei tempi, ma contribuirà anche a elaborare e attuare nuovi progetti di evangelizzazione, per le odierne situazioni”(17). Se, al contrario, prevarranno altre logiche, penso che perderemmo una provvidenziale opportunità di rinnovamento e un appuntamento profetico con la storia.

Giocare la “carta dei laici”, teoricamente possibile e valida, esige rigore intellettuale e ascetico, perché di continuo va verificata, oltre che sul piano della teologia e delle intenzioni, anche su quello dei fatti e delle situazioni.

“Un soggetto in crisi di collocazione e di senso, ammoniva in un ritiro spirituale don Gino Moro, porta a fondo anche l’altro a cui si aggrappa”. Due malati non fanno un sano, né due ciechi possono esplorare una foresta. Detto altrimenti, l’incontro con i laici è valido e fruttuoso solo se noi religiosi - nello stile di vita e nelle nostre strategie di presenza e di azione - accettiamo di passare sotto la croce della conversione. Altrimenti si tratterà di parole vuote per coprire i nostri equivoci. Agiremo sulla base di problemi irrisolti e rimandati. Ma questo non ci porterà lontano. Il laico non può portare, oltre alla propria, anche la più sottile crisi di senso che abbiamo noi come religiosi, né può sostituire con la sua abbondanza numerica la nostra pochezza di indirizzo e di senso. L’alleanza è vincente se si fa tra soggetti e sistemi in buona salute.

I primi passi sulla via della condivisione del Carisma

Mentre lavoravo alla preparazione di questa relazione, è uscita la lettera del direttore generale degli Orionini, don Roberto Simionato, dal titolo: “Vogliamo vedere Gesù”. Essa in parte è eco del convegno internazionale del Movimento laicale orionino del l997 e, in parte, valutazione di sei anni di esperienze sul fronte della condivisione, anche in vista del capitolo generale dell’istituto, dedicato appunto a queste tematiche.

Ho pensato perciò - per la parte conclusiva della relazione - di attingere a questo documento, perché porta la riflessione direttamente sul vissuto, anziché sulle teorie, e perché si muove più sul terreno dei fatti che su astrazioni. E ogni tanto abbiamo bisogno di ascoltare la voce dei fatti, la voce della vita.

Partendo dal messaggio di Giovanni Paolo II al Movimento laicale orionino del l997, don Simionato precisa subito che esso è nato proprio “con lo scopo (e riporta le parole del Papa) di offrire alle differenti componenti dell’associazionismo, sorte attorno alle istituzioni dell’Istituto, la possibilità di vivere la sequela di Cristo” (….) . E la sequela di Cristo si impara (e sono ancora parole del Papa) “condividendo con i Figli della divina Provvidenza e con le Piccole suore missionarie della carità il carisma orionino”.

La parola d’ordine è “condivisione di carisma”, e il discorso si fa subito spirituale, esigente, prendendo le distanze da ogni possibile strumentalizzazione reciproca. Evangelizzare testimoniando il carisma è una nostra esigenza profonda, prima di ogni altra preoccupazione per l’eventuale collaborazione a dei lavori in corso. Prima il regno di Dio e poi il sovrappiù.

Cosa succede tra i religiosi

Tanti laici attorno a noi: una scoperta, che determina una presa di coscienza.

Le recenti iniziative che hanno portato alla nascita del movimento hanno avuto il merito di mettere davanti ai religiosi (fisicamente e visivamente) l’impressionante potenziale numerico e qualitativo dei laici che, a vario titolo, ruotano dentro e attorno alle opere dell’Istituto. Fra di essi non sono pochi quelli che si considerano veri “figli” di don Orione.

Ed è stato come una scoperta. Prima infatti eravamo abituati a guardare prevalentemente alla nostra spiritualità, alle nostre opere, ai nostri problemi… Adesso invece lo sguardo si posa sulle persone che la Provvidenza ha coinvolto nell’avventura del carisma.

Sussistono, tuttavia, paure e rischi, quali:

- una concezione chiusa della vita religiosa, che consente ai religiosi di isolarsi troppo

- qualche esperienza di apertura, finita male, che consiglia prudenza,

- la paura che certe situazioni ci sfuggano di mano, se non restano in mano all’Istituto,

- istinto di difesa e paura di qualche infiltrato per motivi soltanto interessati,

- disorientamento per l’incapacità di darsi un nuovo ruolo di animazione all’interno delle opere.

Ci sono pure esperienze “apparentemente” buone, ma che poi buone non sono quando si ricorre ai laici solo per scarsità di religiosi, chiedendo solo l’efficienza dei servizi, senza dare un’anima, quando un religioso fa tante cose con i laici, ma solo per conto suo, per cui i laici che frequenta sono solo un alibi alla sua mancanza di vita comunitaria.

Ci sono perciò “caricature” di partecipazione, che consolidano l’individualismo. La condivisione con i laici, invece, nasce da una sovrabbondanza, da una estensione della vita comunitaria, non da una sua negazione.

Che cosa c’è davvero in gioco?

Nella condivisione del carisma con i laici è in gioco la nostra capacità di relazioni vere, prima con la comunità religiosa, e poi con il mondo,… con il mondo di oggi e con i tempi che vive la Chiesa.

Presa di coscienza di un compito nuovo

Oggi la trasmissione del carisma non possiamo darla per scontata. La dobbiamo programmare esplicitamente. È tutto il discorso della pastoralità delle opere da difendere e recuperare, incominciando dal cuore del religioso, che non deve perdere l’istinto apostolico.

È per noi come um cammino di formazione permanente. Girando e rigirando, il caffè alla fine diventa dolce, ma solo se prima hai messo lo zucchero… Se non ripartiamo da dentro, con i laici condividiamo solo delle iniziative pastorali, delle strutture di assistenza, delle tecniche di lavoro, “credendo” di condividere il carisma. Ma condividere il carisma è qualcosa di più profondo. È come piantare nei cuori quel seme di vita che nel Fondatore ha dato frutti stupendi.

Trasmettere il carisma ai laici vuol dire rimandarli sempre a quella nostra realtà più interiore, cioè quel segreto della nostra vocazione che ci ha fatto lasciare tutto per servire il Signore, in assoluta fedeltà alla Chiesa.

I laici non potranno condividere il nostro carisma, se noi non troviamo parole e fatti che lascino intravedere le radici della nostra scelta profonda, le motivazioni spirituali. I laici non condivideranno il nostro carisma se prima non hanno trovato Lui: “vogliamo vedere Gesù”.

Le reazioni dei religiosi, di fronte alla strada intrapresa della condivisione del carisma con i laici, offre una panoramica molto variegata: va dall’entusiasmo, a valutazioni più o meno contenute, fino allo scetticismo.

Probabilmente alcuni hanno colto solo l’aspetto esteriore, folklorico, del fenomeno, senza misurarne la reale portata. Aumenta però, col tempo, il numero di quanti intuiscono che l’apertura ai laici comporterà una necessaria revisione sul piano della spiritualità, dello stile di vita, della qualità della consacrazione, e della capacità di rapportarci tra noi, con le persone, con la società e con la Chiesa locale. E comporterà pure, naturalmente, una profonda revisione nelle opere (stile di presenza, trasparenza amministrativa, rispetto dei ruoli e delle competenze, professionalità).

Un bel lavoro, quindi, che però domanda un grosso investimento nella formazione: e questa è una delle attese più serie.

Formazione dei religiosi nelle comunità per l’immediato e, in prospettiva, preparazione dei religiosi a rivestire sempre più spesso i panni di formatori, maestri di spiritualità, testimoni, dismettendo un poco quelli più abituali del “fac-totum”, del “faccio tutto da me”… Le attese sono molte; i timori non sono di meno. C’è da augurarsi che la fede sia più grande delle une e degli altri.

Approcci giusti e approcci sbagliati

Ci sono due passaggi, nella lettera di don Simionato, che vorrei citare per esteso. Riguardano due tipi di approccio al tema della condivisione: l’uno a partire dalle necessità delle opere, l’altro dalla ricchezza del carisma.

C’è sempre il rischio di restringere il discorso della condivisione del carisma, lasciandosi chiudere dalla preoccupazione delle opere, e pensare ai laici come alla grande soluzione per salvarne alcune. Però dando via le opere in qualsiasi modo pur che sopravvivano, non si salvano né le opere né il carisma. Quest’ottica ristretta è sempre fallimentare.

Ogni problema deve trovare la soluzione nell’ambito giusto. La partecipazione dei laici non deve diventare un alibi per rimandare nel tempo provvedimenti necessari. Se una Provincia vede dimezzato il suo personale religioso, deve prendere serie decisioni di ridimensionamento. Tale compito, anche se arduo e doloroso, va affrontato con coraggio e col necessario discernimento (cf. V.C. , 63). Che poi i laici possano aiutare in qualche situazione particolare, può essere anche vero, ma porre il problema in forma riduttiva è una tentazione molto pericolosa (l8).

Il processo è un altro. Il laico non merita gli avanzi della gestione religiosa, una semplice supplenza alla mancanza di personale, ma un cammino cosciente di crescita nella condivisione del carisma.

Noi abbiamo ricevuto il carisma come dono per la Chiesa. Non lo possiamo tenere nascosto. Trasmetterlo è nostra missione, da compiere comunque, per vocazione, anche se non avessimo bisogno di laici per le opere. Ringraziamo il Signore che, nella scarsità, ci dà un’opportunità per trasmettere questa nostra ricchezza. Ma non dobbiamo sbagliare l’approccio.

Può sembrare un gioco di parole, ma mi piace esprimerlo così. Non è giusto dire: Dobbiamo trasmettere il carisma perché siamo in pochi e (purtroppo) abbiamo bisogno di laici. Ma invece dobbiamo dire: Abbiamo bisogno di laici, perché abbiamo un carisma da trasmettere.

Alla fine, a forza di collaborare con noi, potrà anche capitare che qualche opera venga rilevata dai laici, ma deve essere una conseguenza, per così dire; un effetto secondario.

Se il laico assimila il carisma, può allargare il cerchio della carità addirittura avviando opere simili in proprio. Ma tutto deve partire dal contagio… della carità e del carisma...

Cosa succede tra i laici

Una breve premessa. - La parola “laico”, lo sappiamo, rimanda oggi a una molteplicità di significati e applicazioni diverse. Per cui, quando si avviò il progetto della condivisione del carisma con i laici, qualcuno subito pose la domanda: “Carisma con i laici, sì, ma con quali laici?” Dopo un certo discernimento, si convenne di non porre a priori discriminazioni o preclusioni di sorta, per il fatto che “Dio non fa preferenze di persone” (At l0,35) e perché il carisma è “dono di Dio per tutti”. Noi quindi non siamo autorizzati ad essere segno per alcuni sì e per altri no. Per cui ci siamo orientati a comprendere tutti coloro che, per qualsiasi ragione, vengono a contatto con noi e con le nostre opere.

Per “laici” quindi intendiamo gli assistiti, le loro famiglie, i dipendenti, gli ex-allievi, gli amici, i benefattori, i volontari, gli obiettori di coscienza, gli operatori pastorali, i gruppi giovanili, i consacrati laici…

Quando cominciammo a mettere in piedi il coordinamento provinciale e il coordinamento dei gruppi locali, e presentammo la proposta della condivisione del carisma a tutte le realtà locali nelle singole case, le reazioni furono diverse.

Andavano da: “Era finalmente ora!” dei più formati alla vita di fede e già allenati in esperienze pastorali, al “Che cosa significa? Che cosa vorranno adesso i preti?” di coloro che avevano con le nostre opere unicamente un rapporto di lavoro di carattere aziendale.

In tutti però notammo rispetto, per il fatto che volevamo essere quello che siamo e vogliamo che anche le nostre opere abbiano una loro precisa identità nel territorio.

Le iniziative che seguirono (riunioni formative in modo via via più sistematico, la finalizzazione di certe riunioni associative alla formazione al carisma mentre prima c’era discontinuità di contenuti e di metodo, figure di laici che cominciavano ad emergere assumendo ruoli anche in ordine al coordinamento e alla formazione…) hanno fatto crescere le attese.

Ad esempio quando, dopo qualche anno, si è deciso che il tema del capitolo generale dell’Istituto fosse la condivisione del carisma con i laici e che sarebbero intervenuti anche loro rappresentanti scelti in ogni provincia e delegazione, la cosa ha fatto impressione e ha destato nuovo interesse. Si è visto che si voleva fare sul serio…

Anche i laici tuttavia non sottovalutano possibili rischi ed equivoci: la tenuta delle opere e del posto di lavoro, la distribuzione dei ruoli, il passaggio di certe responsabilità a dei colleghi (a volte, avere a che fare con un prete è meglio che avere a che fare con un professionista)… Ma è soprattutto la domanda di spiritualità e di formazione che, almeno per noi in questa fase, risulta prevalente.

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N O T E

1. Cf. ad esempio Christifideles Laici, 18-24; - Vita Consecrata, 31 e 54-56.

2. Cf. lo studio del p. Gino Moro dal titolo: Quanto alla mutua relazione Religiosi-Laici, Sacrofano l997, p. 5.

3. Cf. LG 30-38, che poi si espanderà nei 33 numeri della Apostolicam Actuositatem.

4. Il seme di LG l7 diventa arbusto in Unitatis Redintegratio.

5. Queste nuove posizioni vengono poi sviluppate: la LG 17 nei 42 numeri di Ad Gentes, e la LG 1 nei 93 numeri della Gaudium et Spes.

6. Esortazione apostolica Vita Consecrata, l996, n. 4.

7. Christifideles Laici, n. 2.

8. ChL n. 3

9. ChL n. 15.

10. ChL n. 15

11. ChL n. 17.

12. ChL n. 55.

13. Atti del X Capitolo gen. dell’Istituto di don Orione, 1992, p. 82.

14. Sui passi di don Orione, EDB, Bologna 1996.

15. Quaderni annuali con schede, per le riunioni formative delle comunità religiose.

16. Andate anche voi nella mia vigna: sussidio per la formazione al carisma, redatto da un gruppo formato prevalentemente da laici. A partire dal convegno sulla formazione al carisma, anche i laici ricevono ogni anno un quaderno per incontri mensili di formazione al carisma.

17. Vita Consecrata, n. 73.

18. R. Simionato, Lettera cit., p. 278.

19. Ib., pp. 278-279.