TEOLOGIA E SPIRITUALITÀ

L’INTERCESSIONE BIBLICA

(Ovvero la Solidarietà Riparatrice)

Giovanni Mengoli, scj

La parola “intercessione” deriva dal latino intercedere, che possiamo scomporre in cedere (passare, andare) e inter (attraverso): il significato che ne segue è: interporsi, intervenire a favore di qualcuno.

Nel testo greco della Bibbia abbiamo entunkanein, che la vulgata traduce con interpellare. Il significato è quello di voler incontrare qualcuno, per sollecitare una grazia, domandare con insistenza, anche a costo di risultare importuni... Viene alla mente la parabola evangelica dell’amico indesiderato, che insiste a tempo e fuori tempo, perché il padrone di casa gli apra e gli offra qualcosa per poter accogliere bene un amico che è giunto a notte inoltrata.

Partendo dal testo della Scrittura, noi qui esamineremo due esempi classici di preghiera di intercessione, che hanno come protagonisti Abramo e Mosè, per arrivare poi all’intercessore per eccellenza: Gesù Cristo. E concluderemo con alcuni rimandi alla nostra Regola di Vita.

1. L’intercessione di Abramo per i peccatori (Genesi 18,16-33)

Con questa sua preghiera Abramo obbedisce alla parola di Dio che lo ha stabilito mediatore di benedizione per tutti gli uomini. La pericope fa parte di un brano unitario che si estende da 18,1 a 19,28. Va letta, quindi, all’interno di questo brano più ampio. La tematica di fondo è tipica della rivelazione biblica: il Signore viene a visitare gli uomini in qualità di giudice e di salvatore. L’incarnazione sarà il momento centrale e culminante di questa serie di visite.

Il brano si suddivide in tre parti:

18,1-15: visita del Signore ad Abramo;

18,16-33: dialogo di Abramo con il Signore e intercessione;

19,1-28: visita del Signore alle città peccatrici.

Nel brano, notano i biblisti, il redattore (J) non dà semplicemente il racconto di una tradizione passata, ma teologizza. Si sforza di elaborare un nuovo concetto di Dio: dalla cognizione del Dio di Ur dei Caldei, a quella del Dio della salvezza. Il brano, più che d’intercessione, si potrebbe definire preghiera di penetrazione teologica nel mistero della vicenda umana, così come Dio la giudica.

La vicenda di Sodoma è chiaramente emblematica. Siamo di fronte ad una situazione cosmica in cui giocano tre personaggi: Dio, colui che Dio stesso ha eletto per il suo popolo e il mondo con il suo peccato.

Dio giudicherà il mondo! Quale funzione avrà Abramo, l’amico di Dio, in questo giudizio?

Il Signore, che già in precedenza ha detto ad Abramo: “In te si diranno benedette tutte le nazioni della terra” (Gen 12,3), rinnova qui la sua promessa, e lo farà ancora una terza volta dopo la prova decisiva del sacrificio di Isacco (Gen 18,18; 22,18). Ma è la seconda proclamazione, incorniciata fra le altre due, quella dominante.

Abramo prende consapevolezza che la nuova epoca nei rapporti tra Dio e l’uomo, di cui è chiamato ad essere precursore, non è soltanto di insegnare la via di Dio, ma anche di recuperare il peccatore.

È proprio adesso che il servizio di Abramo alla comunità raggiunge il suo culmine, e che la sua intercessione dà l’avvio a quella corrente di benedizione che si diffonderà nel mondo.

Allontanatisi gli angeli per raggiungere Sodoma, Abramo si trova solo davanti a JHWH. Con finezza, lo jahvista ci introduce fin nel cuore di Dio: “Nasconderò forse ad Abramo ciò che sto per fare? Dal momento che Abramo diventerà una nazione grande e potente e per lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra?” (Gen 18,16). Si assiste qui al dibattito interiore nel cuore di Dio: nel momento in cui si è scelto un amico, com’è Abramo, per rovesciare la tendenza della storia umana, può prendere una decisione così grande, come la distruzione di Sodoma e Gomorra, senza parlarne con lui?

Inizialmente Abramo si fa portatore di un’esigenza di equità, per cui non è ammissibile che i giusti siano coinvolti nella punizione dei malvagi.

Si tratta di un problema giuridico in quanto, secondo un principio dell’antica mentalità orientale, tutta la comunità è solidale nel peccato dei suoi membri, e quindi tutti ne portano le conseguenze.

Abramo, dal canto suo, si richiama ad un concetto di giustizia che ha un significato di forte superamento rispetto a tale concezione. Se vi sono dei giusti devono essere salvati, perché la giustizia vuole che a ciascun uomo venga riconosciuta la propria responsabilità.

Ma la domanda va oltre. Forte del presupposto della solidarietà, il patriarca domanda che questa da JHWH venga applicata in senso contrario, rovesciando la solidarietà in vicarietà!

Si instaura così un nuovo concetto di giustizia: non quello secondo il quale si deve dare a ciascuno il suo, mettendo da una parte i peccatori e i giusti dall’altra, ma quello di una giustizia che cerca di salvare tutti, e per questo si serve dei giusti e fa leva su di loro.

Abramo trova il coraggio e la luce per esprimere una tale proposta a Dio partendo da una profonda riflessione sulla parola di Dio, da una fede e un amore che sono totale disponibilità, da una viva sollecitudine per il prossimo. La sua preghiera non è avventata, ma fondata sulla rivelazione; si distingue per l’insistenza, l’umiltà e la fiducia.

Certo JHWH si aspettava questa supplica dal patriarca! La giustizia che Abramo domanda appartiene intimamente al cuore di Dio: salvare gli uomini perdonandoli, e ridare loro la vita. JHWH non si aspetta di poter castigare, si aspetta di poter perdonare! Il termine ebraico che indica questo atteggiamento rahámîm (misericordia) richiama le viscere materne che ne indicano il fondamento: il creatore non vuole distruggere ma dare e ridonare la vita.

Inizialmente Abramo si basa su cinquanta giusti, dieci per ognuna delle cinque città perverse; poi, rassicurato, procede innanzi aumentando le richieste, trovando il coraggio per proseguire nella linea della risposta divina, che ogni volta risuona pronta e affermativa.

Il mercanteggiamento continua fino al numero di dieci giusti. Dio si lascia convincere ad accettare questa cifra, oltre che per la sua grande misericordia, per la profonda fede di Abramo.

Ma come mai Abramo, che ha scoperto un nuovo volto di Dio, si ferma a dieci giusti?

A prescindere dalla risposta a questa domanda, si pone un problema essenziale: esistono dei veri giusti sulla terra? L’approfondimento della riflessione biblica proclamerà l’universalità del peccato... Il seguito del racconto mostra che anche a Sodoma tutti sono peccatori, eccetto Lot che viene salvato, ma è considerato straniero dai concittadini.

La volontà salvifica di Dio viene però confermata. Non potendo, infatti, Lot fuggire con la necessaria sveltezza, gli viene concesso di rifugiarsi nella più piccola delle cinque città da distruggere, che viene per questo risparmiata.

L’intercessione di Abramo dunque è stata in parte esaudita. Ciò vale come segno, e dà fondamento a una speranza che si realizzerà in Cristo. Da parte di JHWH esiste la piena disponibilità al perdono e un grande disegno di salvezza per attuarlo; da parte umana mancano ancora i necessari presupposti.

Abbiamo qui la base per la teologia che emergerà in tutta la sua potenza nell’immagine del servo sofferente del profeta Isaia (c. 53): in forza di un solo giusto Dio salverà il suo popolo. Vi è tuttavia l’incapacità dell’uomo a collaborare in modo efficace e risolutivo con la misericordia del Signore. Il vero autore della salvezza, il vero giusto che basterà da solo per salvare tutti i peccatori, portandoli alla conversione e alla pienezza di vita, sarà Gesù Cristo, uomo e Dio insieme. Abramo con la sua intercessione prepara la strada. Non per niente è padre di una lunga discendenza da cui fiorirà il Salvatore.

Abramo si presenta dunque come l’amico di Dio, ardito sino in fondo, perché vuole conoscere appieno il mistero di Dio. Potremmo dire che questa impertinenza gli è perdonata perché molto ha amato. Vuole amare Dio immensamente, vuole capirlo e giustificarlo agli occhi di se stesso e del mondo; per questo gli fa le domande più audaci.

In lui la preghiera è lotta. Lotta tra il senso di rispetto dovuto a Dio e l’urgenza del problema che la fede gli pone: conoscere meglio la giustizia di JHWH verso l’uomo. Molto simile è la domanda del profeta Geremia: “Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te, ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia” (Ger 12,1).

Abramo lotta per una nuova conoscenza di Dio. Cerca di capire chi è il Dio della salvezza, il Dio vero. Non quello che umanamente ci si immaginerebbe, ma colui per il quale la giustizia non ignora il perdono, agli occhi del quale un esiguo numero di innocenti conta più di una maggioranza di colpevoli.

In sintesi potremmo dire che la preghiera di Abramo esprime la tensione fondamentale tra le due “misure” della legge di Dio: la giustizia e la misericordia. Umanamente parlando queste appaiono contraddittorie tra loro. Solo all’interno di un rapporto personale con Dio giusto e misericordioso, nel quale queste esigenze non sono in contrasto, si può trovare uno spiraglio di luce.

2. L’intercessione di Mosè per il popolo (Es 32-34)

Il contesto è quello del peccato, commesso dal popolo con l’adorazione del vitello d’oro, mentre Mosè se ne stava in preghiera sul monte.

È un peccato caratterizzato da due espressioni. La prima è “perversione e idolatria” (Es 32,7), e la seconda: “dura cervice” (ib. 9). La costruzione del vitello d’oro, considerato dal popolo solo come il piedistallo su cui doveva poggiare Dio, è un atto di sfiducia, di negazione della presenza di Dio, e quindi di perversione e idolatria. La dura cervice o il cuore duro sono invece simbolo dell’affermazione di sé, del proprio modo di pensare, che non si pone in ascolto di Dio e non riconosce il bisogno di essere salvati da Lui.

La conseguenza del peccato è l’annullamento dell’alleanza, simboleggiato dalla rottura delle tavole della legge.

Il racconto però si conclude con una nuova salita di Mosè sul monte, e la preparazione di due nuove tappe per il solenne rinnovamento dell’alleanza da parte del Signore con il suo popolo.

All’interno di questo contesto di tradimento, castigo e perdono, è situato il dialogo serrato tra Mosè e JHWH, che costituisce uno dei momenti più alti della preghiera di tutto l’A.T.

Il passaggio operato dalla giustizia alla misericordia di Dio, dal castigo al perdono di Israele, è dovuto all’opera di intercessione di Mosè in favore del popolo peccatore.

Nella preghiera solitaria di Mosè, e nell’adorazione del vitello d’oro da parte d’Israele, abbiamo due modi antitetici di concepire la preghiera e il rapporto con Dio che entrano in conflitto.

Da una parte il popolo che, in un momento di allontanamento da Dio, non riconosce più il bisogno di salvezza, che può venire solo da un Altro, e vive un culto vuoto, verso un idolo che non ha vita!

Dall’altra Mosè che resta solo e in disparte. La sua preghiera è un colloquio con Dio nel segreto, è culto interiore, senza immagini, ma in spirito e verità. Egli è il prototipo dell’uomo di preghiera, che incontra Dio faccia a faccia, “come un uomo parla con un altro” (Es 33,11).

Il racconto biblico registra ben cinque interventi in favore d’Israele. Una tale frequenza sottolinea da un lato l’insistenza di Mosè, e dall’altro esprime una dinamica di sviluppo, nella quale, non solo Mosè, ma anche JHWH è portato a rinunciare ai propri desideri e “abbandonare i propri propositi” (Es 32,14)... Il verbo ebraico tradotto con questa espressione, nhm, in realtà manifesta un cambiamento ancora più radicale e profondo; si potrebbe rendere anche con “si pentì”, “si dispiacque”. Esprime un cambiamento fisico del soggetto, e un cambio di sentimento rispetto ad un’azione o a un’attitudine precedente.

Tuttavia nel seguito l’atteggiamento di Dio, a causa della sovrapposizione di diversi racconti, risulta sconcertante.

In Es 33,33-34 egli risponde a Mosè: “Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me. Ora va, conduci il popolo là dove io ti ho detto. Ecco il mio angelo ti precederà, ma nel giorno della mia visita li punirò per il loro peccato”.

La misericordia non esclude una presa di posizione di questo genere. L’intervento punitivo di Dio è la manifestazione estrema della dissociazione di Dio dal male e dal peccato del suo popolo.

In Es 32,25-29 la fine dei colpevoli è anche la conseguenza di una scelta a cui Mosè sottopone gli Israeliti: “Chi sta con il Signore venga da me”. È la decisione di non stare con il Signore che conduce alla morte. Nell’apparente contraddizione della sequenza testuale questo brano indica che il perdono di Dio non significa un colpo di spugna passato sul male, ma chiama l’uomo a una decisione, a una scelta che troviamo molto spesso nei profeti.

Certo la misericordia e il perdono di JHWH non sono condizionati da una scelta dell’uomo; tuttavia l’uomo, nella sua libertà, può anche rifiutare il dispiegarsi della misericordia di Dio non riconoscendosi peccatore.

Anche per Mosè, come per Abramo, l’intercessione si configura come una lotta con Dio. Attraverso questo genere letterario, viene rappresentato il combattimento contro le tentazioni spirituali che vive Mosè, tanto grandi quanto maggiore è la responsabilità. Egli, infatti, si trova in mezzo: tra un popolo di dura cervice, al quale deve ricordare continuamente le esigenze della giustizia divina, e un Dio al quale non cessa di richiamare le promesse, ricche di misericordia, fatte ad Abramo, Isacco e Giacobbe.

Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa di noi la tua eredità” (Es 34,9). Da notare il brusco scarto grammaticale che c’è in questa frase pronunciata da Mosè. Non dice: “È un popolo dalla testa dura, ma tu perdona la sua colpa”, bensì: “è un popolo dalla testa dura, ma tu perdona la nostra colpa”. Mosè si mette in mezzo, accetta di farsi solidale col peccato del popolo, peccato che lui non ha commesso.

Nell’ascesa solitaria della montagna, Mosè è diventato l’amico di Dio, ma nella discesa verso il suo popolo, si dimostra anche l’amico dei suoi fratelli, accettando di schierarsi con loro, con la forza di Dio, anche contro Dio.

Questa delicata posizione, oltre che essere umanamente logorante, è anche segnata da tentazioni profonde. La misericordia di Dio non può trasformarsi in indulgenza o in compromesso nei confronti del peccato; d’altra parte la giustizia di Dio non può annullare la sua fedeltà e la sua misericordia. Anche qui si ritrova la dialettica tra le due “misure” delle leggi di Dio.

Per Mosè è grande la tentazione di rigettare il popolo peccatore, considerando se stesso immune da peccato. Tanto più che Dio stesso lo mette alla prova: “Io ho osservato questo popolo, e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lasciami fare: la mia ira si accenderà contro di loro e li distruggerà. Di te invece farò una grande nazione” (Es 32,9). Questa richiesta, da parte di Dio, appare contraddittoria. Mosè è cosciente che la sua missione nella storia della salvezza è diversa da quella di Abramo; i “padri” in Israele ci sono già stati! Che senso avrebbe tornare indietro per ricominciare come se niente fosse?

È la fedeltà di Dio alla sua stessa opera l’argomento invocato in questo che è il momento della prova. “Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo. Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra prosperità numerosa come le stelle del cielo e tutto questo paese, di cui ho parlato, lo darò ai tuoi discendenti, che lo possederanno per sempre” (Es 32,12s). La coscienza dei propri limiti e della propria subordinazione ad un’opera non sua sono il punto d’appoggio più sicuro per la preghiera di Mosè.

Ma soprattutto egli non può accettare una salvezza individuale. Intende condividere la sorte della sua gente. Preferisce essere cancellato dal libro su cui Dio scrive la storia della salvezza purché si salvi Israele. È una specie di ricatto, in cui Mosè si gioca con tutta la sua vita, ma sa di battersi secondo le regole poste da Dio, alle quali Dio stesso non può venire meno.

Nella sua lotta Mosè risulta vincitore proprio nel momento in cui diventa capace di perdere ogni interesse personale, per vivere un amore oblativo, con la dignità e la grandezza d’animo di chi ha assunto sempre le proprie responsabilità. Allora la sua interecessione è talmente pura, talmente efficace, da operare il rinnovamento dell’alleanza tra Dio e Israele.

In definitiva la preghiera di Mosè è un’esperienza rivelativa della misericordia di Dio, del Dio che, mentre dice a Mosè: “Ora lascia che la mia ira si accendo contro di loro e li distrugga” (33,9), sotto sotto desidera che Mosè lo blocchi; per cui è come se dicesse: “Non lasciarmi..., spero che non mi lasci..., lascio nelle tue mani la decisione!”. Un Dio che opera nella storia secondo il mistero dell’incarnazione, e che non potrebbe rivelare la sua magnanimità senza l’opera di uomini giusti, come Mosè.

Nel corso mirabile della storia della salvezza, sarà Dio stesso a prendere talmente sul serio la mediazione inclusiva dell’orante al punto da “compromettersi” definitivamente con l’uomo, facendosi carne, prendendo su di sé il peccato, per la salvezza di tutti.

3. Gesù Cristo intercede per noi presso il Padre

Rivolgendosi a una comunità probabilmente in crisi di fronte alle prove della vita, l’autore della lettera agli Ebrei parte dalla professione di fede in Cristo, “Figlio di Dio glorioso”, intronizzato alla destra del Padre. Ma poi riprende subito il tema dell’incarnazione che ha costituito il Figlio di Dio solidale con l’uomo, dentro le sue contraddizioni storiche, per aprire a tutti la nuova via dell’incontro con Dio. In questa prospettiva viene riletto il salmo 40: “Per questo entrando nel mondo Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare o Dio la tua volontà” (Eb 10,5.7). Il protagonista, innominato nel dialogo del salmo, viene identificato con Gesù, il quale interpreta la sua missione sotto il segno dell’attuazione fedele della volontà del Padre. Un Padre per il quale la volontà di salvare è più forte di quella di punire (Lc 15), e che in forza del solo giusto, Gesù Cristo, vero uomo ma anche vero Dio, salva ogni sua creatura.

Si potrebbe dire che, con il suo sacrificio, Cristo contribuisce a far stabilire definitivamente JHWH sul trono della misericordia. Nella croce, luogo di sintesi tra giustizia e misericordia, Dio dice tutto di sé: Egli è Amore. Questo, Gesù lo sapeva bene! Sapeva che non c’era bisogno di nessuna intercessione previa affinché il padre della parabola accogliesse il figlio prodigo ancor prima del suo esplicito pentimento, o affinché il pastore andasse in cerca dell’unica pecora perduta. Dio è amore traboccante. L’offerta di suo figlio sulla croce mostra come la vera riparazione parta da Lui e solo in Lui riceva piena efficacia.

In questo modo Gesù è diventato l’artefice della salvezza per l’umanità, colui che sta all’origine e al compimento del cammino di fede di quelli che si mettono sulla sua via, mediatore e garante dell’alleanza nuova e definitiva.

Per esprimere tutto questo con un solo termine, evocatore di tutta la lunga tradizione biblica, l’autore della lettera agli Ebrei afferma che Gesù è stato proclamato “sommo sacerdote”. Si tratta però di un sacerdozio esistenziale, superamento definitivo di tutte le forme di culto antiche, attuato per mezzo dell’autodonazione nella morte di croce.

Come il sommo sacerdote giudaico penetrava al di là del velo del Santo dei Santi, ugualmente Gesù, una volta per sempre, è entrato nel nuovo tempio al di là del velo del Santo dei Santi.

Questo velo era la sua carne, osserva l’autore della lettera agli Ebrei (10,20), Egli l’ha attraversato morendo e risuscitando. Il suo corpo, risuscitato dai morti, è diventato il cammino, “nuovo e vivente”, grazie al quale ora ognuno trova accesso al santuario.

Anche la tenda dell’alleanza e il santuario sono ora differenti da ciò che fu la loro prefigurazione nella liturgia dell’antico Testamento. Sono davvero “più grandi e più perfetti e non fatti da mano d’uomo”. Il santuario è il cielo stesso dove, alla destra del trono del Padre, il nostro sommo sacerdote prende posto per esserci intercessore per l’eternità (Eb 9,11.24).

Egli, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta, perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore” (Eb 7,24).

È nel nuovo santuario del cielo che Gesù prega, adesso, in quell’adesso senza limiti dell’eternità che il nostro tempo creato non può fissare né raggiungere, se non con la preghiera. Tale egli è e resta “ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8).

Lassù, in Gesù risuscitato, si trova anche la fonte della nostra preghiera di quaggiù. Grazie alla preghiera, noi siamo vicini a lui; Egli è colui che la presenta al Padre, avvalorandola con il suo merito, sostenendoci nella nostra debolezza, e intercedendo per i nostri peccati.

Tutto ciò era ben presente in san Paolo quando scriveva: “Tutte le promesse di Dio in lui sono divenute ‘sì’. Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro ‘amen’ per la sua gloria” (2 Cor 1,20). La preghiera di san Paolo, infatti, è indirizzata a Dio attraverso Cristo: “Rendo grazie al mio Dio, mediante Gesù Cristo, per tutti voi...” (Rm 1,8).

Anche san Giovanni fa dell’intercessione di Cristo glorificato il cuore della preghiera cristiana. È essenziale che i credenti rimangano uniti a lui come i tralci alla vite. In questo modo possono domandare tutto ciò che vogliono e ogni richiesta sarà loro esaudita. Questa unione organica suppone l’unione di volontà e di tensione con Cristo, come fondamento della preghiera.

La nostra preghiera deve inserirsi nella preghiera personale di Cristo. È alla sua sequela che possiamo iniziarla, è con la sua bocca che innalziamo la supplica, è per il suo sangue che riprendiamo coraggio, è per la sua giustizia che speriamo di essere esauditi.

Nel vangelo di Giovanni, nel lungo discorso di Gesù ai discepoli, ricorre più volte l’espressione: “Se chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò” (Gv 14,14). E siccome, per la cultura ebraica, il nome è l’equivalente della persona, chiedere nel nome di Cristo significa pregare in Cristo, conformando la nostra preghiera alla sua, domandando ciò che egli domanda.

La nostra intercessione dunque sarà sempre più pura, quanto più il nostro cuore e la nostra mente si lasceranno preformare dal cuore e dalla mente di Dio.

Una simile preghiera, che si inserisce nella preghiera incessante di Cristo, sarà certamente esaudita, poiché in lui Dio ha compiuto tutte le promesse. “È questa la fiducia che abbiamo in lui: se domandiamo qualche cosa secondo la sua volontà, egli ci esaudisce” (1 Gv 5,14).

Questa certezza della preghiera cristiana è di forte superamento rispetto all’A.T. In esso i peccati del popolo potevano rompere l’alleanza, e Dio, di conseguenza, poteva allontanarsi e non ascoltare più la preghiera. I cristiani invece non hanno più da temere questo tipo di rottura; la nuova alleanza, suggellata nel sangue di Cristo, è un’alleanza eterna. Tale certezza si fonda sulla fedeltà di Dio, che non può venir meno alle proprie promesse (1 Cor 1,9).

4. Elementi della spiritualità dehoniana

Il riferimento ad alcuni passi evangelici “dehoniani” e alle costituzioni può aiutarci ad inquadrare le sottolineature che vorrei fare, sulla preghiera d’intercessione, vissuta secondo tale carisma.

I sacerdoti del S. Cuore sottolineano l’amore incondizionato di Dio per ogni uomo, amore che si è reso visibile definitivamente in Gesù Cristo: “Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro” (1 Tm 3,4s). Per p. Dehon questo, come altri brani neotestamentari che riflettono il mistero dell’incarnazione, è luogo privilegiato nel quale ritrovarsi volentieri. Gesù, che assume dall’interno la nostra realtà umana trasformandola, genera in noi una profonda solidarietà con tutti gli uomini, specialmente i più lontani.

Per la centralità del mistero dell’incarnazione, il dehoniano, nella sua preghiera, vive una forte responsabilità verso il mondo, verso ogni uomo. Si sente coinvolto con tutta la sua vita nelle contraddizioni dell’umanità. Con commozione e meraviglia risuonano in lui le parole dell’ouverture della Gaudium et Spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”.

Come Mosè non ha accettato di separare la propria sorte da quella del suo popolo, così i figli spirituali di p. Dehon non potranno mai trovarsi d’accordo con certi manichei e fondamentalisti vari di questo secolo.

Sono chiamati invece a mettersi in mezzo, sopportando le tensioni e le lacerazioni che questa situazione comporta, pur di fare sintesi tra il desiderio di giustizia e le esigenze della misericordia, tra il bisogno di verità e il primato della carità; e questo a partire dalla contemplazione del costato trafitto, apice e sintesi tra la divina giustizia e la misericordia, tra verità e carità.

Nelle costituzioni scj troviamo scritto: “Coinvolti nel peccato, ma partecipi della grazia redentrice, col servizio dei nostri diversi compiti, vogliamo essere in comunione con Cristo, presente nella vita del mondo, e in solidarietà con lui e con tutta l’umanità e tutto il creato, offrirci al Padre, come un’oblazione vivente, santa e a lui gradita” (Cst. 22).

In questo modo il dehoniano esplicita la propria vocazione sacerdotale di mediatore. A partire dall’eucaristia, celebrata e adorata, vive la sua missione sull’esempio di Gesù, che non cerca la sua volontà, ma quella del Padre, e trova la sua massima gioia nel donarsi agli altri.

Nell’adorazione eucaristica quotidiana vuole approfondire la propria “unione al sacrificio di Cristo per la riconciliazione degli uomini con Dio” (Cst. 83), perché si sente “partecipe della sua azione di grazia e della sua intercessione” (Cst. 84). Con il cuore aperto alla speranza e ricco di fantasia sull’amore di Dio, introduce un “chi sa...?” o un “forse...?” (cf. Gn 1,6; 3,9; Ger 21,1; 26,3; 36,3-7) nell’irrevocabilità delle sentenze e delle condanne, certo che l’avvenire rimane aperto alla grazia e alle sorprese inaudite dell’amore di Dio, ricco di misericordia, capace di scrivere diritto anche su righe storte. Si tratta di una specie di sfida che rasenta la temerarietà, sapendo però di contare sul desiderio segreto di Dio, il quale si aspetta da lui quella preghiera.

Con la preghiera d’intercessione non siamo noi a rinfrescare la memoria a Dio, o a sollecitarlo in una certa direzione, bensì è lui che ci fa memoria delle nostre responsabilità nei confronti dell’umanità intera, e ci sollecita ad intervenire, con maggior puntualità e coraggio, nella stessa direzione verso cui inclina irresistibilmente il suo cuore.

Essere responsabili del mondo, per i dehoniani, significa assumersi l’impegno di trasformarlo con l’amore, più forte di tutte le infamie. È così che nelle costituzioni viene intesa la riparazione: “come accoglienza dello Spirito, come una risposta all’amore di Cristo per noi, una comunione al suo amore per il Padre e una cooperazione alla sua opera di redenzione all’interno del mondo” (Cst. 23).

Nella spiritualità dehoniana si parla di “contemplazione nell’azione”. Si ha la convinzione, infatti, che la propria opera per il regno di Dio sia sempre e soltanto una piccola goccia nell’immenso mare dei bisogni del mondo. Ci si sente i servi inutili della parabola evangelica (cf. Lc 17,7-10), che hanno fatto quanto era loro chiesto, ma che sono ben consapevoli che tanto ancora c’è da fare, e che si potrà realizzare solo con l’intervento di Dio.

Per questo la preghiera d’intercessione, vissuta nell’adorazione eucaristica, assume la dimensione di un amore universale che può raggiungere chiunque, e si dilata alla misura delle necessità del mondo.

In essa si affidano al Padre le proprie fatiche quotidiane per l’avvento del regno, e quelle di ogni uomo, certi che, se non è lui che costruisce la casa, vana è la nostra opera (cf. Sal 127,1); avendo ben presente che importanti non sono i nostri interessi personali, ma il bene e il futuro del mondo intero. Significativo in proposito è lo slogan: “Agire nel locale mirando al mondo intero”.

Concludendo, mi preme sottolineare che, nell’intercessione per il mondo, il dehoniano non è solo “cireneo della croce”, come per tanto tempo una lunga dottrina ascetica aveva sottolineato, ma anche e soprattutto “cireneo della gioia”. Ce lo ricorda anche il Concilio Vaticano II all’inizio della Gaudium et Spes.

Le gioie genuinamente umane, che fanno battere il cuore dell’uomo, per quanto limitate, e forse anche banali, non sono snobbate da Dio, né fanno parte di un repertorio scadente che abbia poco da spartire con la gioia pasquale del regno, bensì fanno corpo con quelle che sperimenteremo nella Casa del Padre.

Per questo, nella preghiera, è tutto l’uomo, con le sue gioie e i suoi dolori, che si offre al Padre, in Gesù Cristo, nello Spirito, affinché possa essere ricreato a misura dell’amore trinitario.