LA SOLIDARIETÀ SACERDOTALE

nella Lettera agli Ebrei

Delio Ruiz, scj

Al di là dei tanti aspetti di questo scritto, una cosa si presenta molto chiara: la lettera agli Ebrei si caratterizza per la sua specifica cristologia che nell'ambito del nuovo testamento risalta fortemente per la sua consistenza ed originalità.1

In Eb la cristologia è connessa soprattutto coi titoli che la esprimono e la sintetizzano chiaramente. Ci fermeremo su due di essi: Figlio di Dio (Hyiós tou Theoû) e (sommo) sacerdote (arch-iereus), non solo perché essi sono i più frequenti (appaiono rispettivamente 13 e 17 volte) ma perché si presentano tanto strettamente relazionati che non è possibile studiare l'uno senza l'altro.2 Qui si concentra tutta la cristologia di questo scritto e di conseguenza le linee fondamentali del nostro studio: la solidarietà sacerdotale.

A) Gesù Figlio di Dio

1. Gesù, è Figlio e divenne Figlio

Il modo di presentare la filiazione di Gesù nella lettera agli Ebrei invita i lettori alla riflessione per capire la sorprendente affermazione: Gesù è Figlio di Dio e contemporaneamente "è divenuto Figlio di Dio". Una serie di testi parla di una dimensione perenne della filiazione di Gesù come sua proprietà ontologica (1,2: “ha parlato a noi per mezzo del Figlio”). In opposizione alla dimensione temporale dei profeti, la filiazione divina definisce Gesù dalla radice. In due passi 5,8 (“pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì”) e 7,28 (“...il Figlio è stato reso perfetto in eterno”) la caratterizzazione del Figlio è associata all'idea di un perfezionamento consolidato.3

Un'altra serie di testi, invece, insiste sulla filiazione acquisita da Gesù. Il testo fondamentale è 1,5 dove il titolo si ripete due volte. L'eredità acquisita consiste in una nuova dimensione di questa filiazione: l'intronizzazione regale (cfr. Eb 1,3b). In 3,5-6, mentre Mosè è definito come “servo”, Gesù, invece, è definito come “Figlio”.

2. "Fu reso perfetto"

Il punto di incontro, storico e ideale, tra la condizione di Figlio e quella di Sacerdote è costituito dal fatto del "perfezionamento" (teleíosis) di Gesù. Benché risulti insolito, in detto concetto, Eb è un scritto assolutamente tipico e centrale.4 Certamente la semantica del testo è cambiata.5 Ma il fatto caratteristico dell'uso del verbo "perfezionare" (teleióo) in Eb consiste nel fatto che in nessun altro passo del NT questo verbo viene utilizzato riferito a Gesù direttamente (cfr. Eb 2, 10) o come soggetto passivo (cfr. 5,9; 7,28).6

"Ed era ben giusto che colui, per il quale e dal quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto (teleiôsai) mediante la sofferenza il capo che li ha guidati alla salvezza" (Eb 2, 10).

“E pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì; e reso perfetto (teleiôtheís), divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli ubbidiscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek” (Eb 5,8-10).

“Egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici, prima per i propri peccati, e poi per quelli del popolo; poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso.

La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti all'umana debolezza, ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce il Figlio, che è stato reso perfetto (teteleiôménon) in eterno” (Eb 7,27-28).

Bisogna notare innanzitutto che, nel processo di perfezionamento, Dio in persona è sempre presente come attore principale degli avvenimenti, come lo rivela la forma del verbo usato (attivo nel primo caso, passivo negli altri due). In secondo luogo, osserviamo che l'individuo "perfezionato" è indicato costantemente come Figlio (implicitamente: cfr. 2,10.13b.14a; esplicitamente: 5,9; 7,28): è in quanto tale che arriva ad essere poi anche Sacerdote. La terza osservazione si riferisce al tema della sofferenza, presente in ogni momento; in realtà, non esiste perfezionamento se non è per mezzo di un'esperienza di dolore (2,10; 5,8; 7,27). E infine, notiamo il tema della "salvezza" come effetto di quell'esperienza: "la guida alla salvezza" (2,10), "la causa della salvezza" (5,9). "Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore" (7,25).

2.1. Pienamente solidale con gli uomini (Eb 2, 10)

Già semplicemente come uomo, Gesù condivide la comune condizione della infermità umana. Basta citare il paragone di Gesù con gli angeli (1,5-2,18), dove si esalta l'identità del Figlio; la cosa più interessante è l'originale interpretazione cristologica del salmo 8 (cfr. Eb 2,5-9),7 con la chiave ermeneutica del Salmo 110. Nessuno degli angeli ha dimostrato una tale solidarietà con gli uomini né ha sofferto la morte per essi, come l'ha fatto Gesù (cfr. 2,10-16). Questa solidarietà viene espressa ripetutamente e in diverse forme, con un ricco vocabolario: “tutti provengono da una stessa origine” (2,11a: ex henos pántes), cioè , sia Gesù come gli uomini sono associati in una stessa origine; “non si vergogna di chiamarli fratelli” (adelphoí 2,11b. 12.17a; cfr. Rm 8,29; Gv 20,17); "i figli hanno in comune la carne ed il sangue" (kekoinôneken: v. 14a; l'affermazione generale prepara la seguente); "così anch'egli ne è divenuto partecipe" (parapleos metéschen: v. 14b; l'aoristo esprime l'azione storica puntuale dell'incarnazione); "doveva rendersi in tutto simile ai fratelli" (kartà panta homoithenai: 2,17a; cfr. 4,15); "soffrì essendo stato messo alla prova" (péponthen autòs peiratheís: 2,18: cfr. 4,15-16).

In questo contesto, il perfezionamento di Gesù passa inevitabilmente attraverso il condividere pienamente la debolezza umana. Aggiungiamo che il complemento "per mezzo della (diá) sofferenza” deve leggersi nel senso che la sofferenza è considerata in se stessa come mezzo di trasformazione; pertanto, il perfezionamento non avviene né con l'evasione dalla sofferenza né con la sua negazione.

2.2. L'esperienza cruciale della passione e della morte (Eb 5,5-8)

La seconda presentazione dell'idea di perfezionamento (annunciata in 5,9) viene preparata in Eb 5,5-8 col tema della Passione e morte di Gesù.8 Questa esperienza si capisce non solamente come momento culminante della solidarietà con gli uomini, ma anche e soprattutto come momento decisivo di obbedienza a Dio.9

Notiamo gli elementi principali del testo. Il tema centrale è la totale umiltà di Cristo che si manifesta in vari momenti.

a) Innanzitutto egli non si costituisce da sé stesso sacerdote ma è costituito tale da Dio (come Sommo Sacerdote ebreo: cfr. 5,1-4.5-6).

b) Gesù affronta il peso doloroso della sofferenza nella sua passione: l'espressione "offrendo preghiere e suppliche... con forti grida e lacrime" rimanda sicuramente al momento dell'agonia nel Getsemani e sul Calvario (cfr. Mt 26, 38-46).10 Si può dire che l'offerta di Cristo è la sua propria debolezza. Si passa in questo modo dai sacrifici rituali ed esterni ad un sacrificio personale ed esistenziale.

c) Con questo ha dimostrato la propria fiduciosa “sottomissione” (eulábeia: 5,7, letteralmente, "profondo rispetto"; cfr. 12,28) alla volontà divina.11

d) Come ogni mortale, dai patimenti imparò l'obbedienza (5,8), cioè, imparò a confidare ed abbandonarsi totalmente in Dio con una decisione unica: "Ecco io vengo, a fare, Dio, la tua volontà!" (cfr. 10,5-10).12

"Fu esaudito" (eisakoustheís: 5,7)13, non significa tanto avere ottenuto maggior forza per poter bere il calice (cfr. Mt 26,39.42) della sofferenza, e neppure la posteriore esaltazione dopo la morte, bensì piuttosto, significa la vittoria sulla morte per mezzo della morte stessa, in quanto essa cerca di ridurre all'impotenza il principe della morte e realizzare la liberazione dell'umanità (cfr. 2,14-15). Il risultato di questa esperienza di sofferenza è il "perfezionamento" di Gesù (5,9). La descrizione di 5,1-4, secondo i testi antichi, non conteneva la più piccola indicazione su un cambiamento nella persona del sommo sacerdote. L'applicazione a Cristo, al contrario, proclama che "arrivò alla perfezione" e prova questa affermazione indicando con realismo come egli divenne capo di questa trasformazione (non rituale bensì reale).14

2.3. l'integrità morale di Gesù e l'unicità della sua offerta (Eb 7,26-28)

Gli ultimi presupposti enunciati dall'autore (7,26-27) come requisiti del suo “perfezionamento” (7,28) sono questi: l'integrità morale di Gesù e l'unicità della sua offerta. Dopo avere dichiarato apertamente l'abrogazione del sacerdozio levitico (cfr.7,18), l'autore enumera una serie di caratteristiche positive che, invece, abilitano Cristo alla funzione sacerdotale (7,26): da un lato, egli è “santo”, “innocente”, “senza macchia”, “separato dai peccatori”, cioè, risponde pienamente al requisito biblico della purezza levitica (cfr. Lv 21,1-22,9), e d'altra parte, “elevato sopra i cieli” e pertanto può intercedere per noi (7,25). Inoltre si dice per la prima volta che egli “realizzò questo una volta per sempre” (ephápax heautòn anenégkas: 7,27) introducendo così il tema della sezione seguente dell'epistola (8,1-9,28) che effettivamente tratterà della perfezione di Gesù Sacerdote. Significativamente in 7,28 si pone un contrasto tra "i sommi sacerdoti" ed "un figlio" per suggerire che, paradossalmente, quelli che ottenevano il sacerdozio, erano soggetti alla debolezza ed in definitiva all'inefficacia, mentre chi all'inizio non era un sacerdote "è stato reso perfetto" sulla base della sua filiazione.14

2.4. Conclusione

1. In che cosa consiste la perfezione ottenuta dal Figlio? Prendiamo in considerazione tre interpretazioni distinte. a) Quella che potremmo dire la perfezione finale: La parola "perfezione" esprime in questo caso solamente "raggiungere un obiettivo";16 ma ciò non spiega l'accento dato al tema della sofferenza in 2, 10 e 5,8, secondo il quale il perfezionamento non è posteriore ma conseguenza del soffrire, col quale è intimamente relazionato. b) Perfezione morale: secondo alcuni Gesù maturò una perfezione morale in quanto raggiunse un modello massimo di virtù perfetta.17 In effetti, a partire da alcuni testi sembrerebbe che l'esperienza della sofferenza avrebbe portato Gesù ad avere un livello morale superiore (cfr. 2, 10; 4,15; 5,9); senza dubbio le affermazioni presenti in 4,15 e 7,26 non danno luogo a dubbi sul fatto che egli è "senza peccato", "separato dai peccatori": pertanto, non si può pensare che prima fosse imperfetto e che solo in un secondo momento avrebbe raggiunto la perfezione di una santità piena. c) Perfezione sacerdotale: il perfezionamento di Cristo consiste semplicemente in essere stato costituito sacerdote.18 Questo è comprensibile se teniamo presenti due aspetti distinti e complementari. In primo luogo, osserviamo che dall'origine esiste una dimensione cultual-rituale del concetto. In effetti, nell'AT si descrive la consacrazione sacerdotale con l'espressione letterale "perfezionare (= legare) le mani"19 ed il sacrificio di investitura è chiamato letteralmente "perfezionamento".20 In secondo luogo, bisogna tenere in conto che questo concetto rituale è stato rielaborato completamente dall'autore della lettera in un doppio senso: esistenziale e relazionale. Da un lato, il “perfezionamento” di Cristo non si realizza per mezzo di una cerimonia rituale, bensì mediante la dolorosa offerta di sé stesso attraverso la sofferenza e la morte. D'altra parte, egli ha perfezionato anche la sua relazione sia di fronte a Dio, per mezzo di un'estrema docilità alla sua volontà, sia attraverso la totale solidarietà con gli uomini (cfr. 2,9-18; 8,1), aspetto sconosciuto per il rituale del Levitico.21

2. Se l'offerta di Gesù sulla croce lo rende "perfetto" cioè lo costituisce sacerdote, allora sorge un'altra domanda: Quale è la relazione tra l'esercizio del suo sacerdozio ed il momento del suo "perfezionamento"? L'esercizio di questo sacerdozio è solo una conseguenza del perfezionamento o fa parte dello stesso? Si potrebbe, dunque, pensare, che la teleíôsis acquisita nella sofferenza sia solamente una premessa per l'esercizio del sacerdozio che si sviluppa totalmente e solamente in cielo, nel santuario celestiale (cfr. Eb 8,1-2; 9,11-12.24). Questo significa che la morte di Gesù sulla croce non sarebbe stata un vero atto sacerdotale, bensì solamente una condizione previa.

A questo problema si possono dare due tipi di soluzioni: a) La prima, consiste nel considerare l'effusione di sangue come puramente in funzione dell'offerta nel santuario; così, si conclude che il sacrificio nella croce è stato intrinsecamente "un atto celestiale", in ordine, per natura, al ministero sacerdotale esercitato poi all'interno del santuario del cielo. In questo modo, rimettendosi all'atto rituale dello Yôm Kippûr, risulta che il secondo momento (il più importante) assorbe in sé il primo, allora tanto la croce quanto l'entrata nel Santo dei Santi del cielo giungono ad essere parte della stessa azione sacerdotale.22

b) Un'altra spiegazione, più convincente, si rifà allo schema soggiacente dello Yôm Kippûr, ma da un punto di vista ben diverso. Secondo Eb esiste, dunque, una chiara differenza tra la festa ebrea e la morte di Gesù. Mentre l'immolazione del capro maschio era solo una preparazione dell'atto di espiazione vero e proprio che consisteva nella successiva aspersione del sangue, compiuta nel Santo dei Santi, qui, invece, l'espiazione propriamente detta avviene nel momento stesso dell'effusione del sangue di Gesù. Questo viene rivelato dal nesso esplicito tra redenzione e morte in questi passi: 9,15 ("essendo ormai intervenuta la sua morte per la redenzione delle colpe"); e 10,10 ("siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo"). Per questo motivo non sembrerebbe conveniente riferire l'infinito presente hiláskesthai di 2,17 solo ad un'attuale e continua attività espiatoria di Gesù.23 È nell'insieme del suo sacrificio che il sangue di Cristo diventa più eloquente del sangue da Abele (cfr. 12,24), soprattutto più che il sangue di capri e tori (cfr. 9,12.14) e giunge ad essere il sangue della nuova alleanza (cfr. 8,1-9,28).

In Eb 5,7 il contesto sacrificale, l'uso del verbo prosphéro, e l'idea della preghiera come sacrificio, fanno pensare che la consegna di sé alla morte è già stata un'oblazione sacerdotale.24 Anche il tema ricorrente dell'ephápax (“una volta per sempre”) si colloca in una doppia linea: da un lato, è certo che sembra collegato solo con l'offerta successiva (cfr. 9,12); d'altra parte, la maggioranza delle volte è relazionato col sacrificio (cfr. 7,27; 9,26.28; 10,10). Esiste allora una dialettica tra i due momenti.

Si può aggiungere che tutta la tradizione cristiana primitiva collega unicamente i concetti di redenzione-perdono-remissione-riscatto con la morte e pertanto con l'effusione di sangue di Gesù (cfr. Rm 3,25; 1Cor 7,23; 15,3; 1 Pt 1, 18-19, ecc.), e mai col suo futuro ministero celestiale (il quale, tuttavia, esiste ed è importante: cfr. Rm 8,34; l Gv 2,1s: qui "espiazione"), allora si può dire come conclusione che il valore redentivo reale e vero è legato anche con l'effusione del sangue sulla croce.

Di conseguenza, secondo la lettera agli Ebrei, il perfezionamento di Gesù unisce la sofferenza della morte alla sua natura sacerdotale.

b) Gesù, sommo sacerdote misericordioso e fedele

Il titolo è presente nelle sue due forme, semplice e composta. La prima è propria del Salmo 110,4 e si trova in realtà solo in quei passi che fanno riferimento al salmo, ripetendolo; la seconda forma, invece, appare in passi che spiegano il senso del salmo applicandolo a Gesù. Non esiste differenze tra entrambe le forme.

Per il nostro tema della solidarietà sacerdotale, non entriamo nella problematica del sacerdozio, né dal punto di vista ambientale storico-religioso né dal quadro tradizionale del tema, nell'AT e NT.25 Ricordiamo semplicemente che nel NT quel titolo cristologico è esclusivo di Eb.26 Sicuramente, elementi cristologici di risonanza sacerdotale si trovano nel NT dentro e fuori Eb.27 In conclusione, la cristologia sacerdotale di Eb può avere antecedenti non solo nel giudaismo ma anche nella tradizione cristiana; tuttavia, rimane chiaro che non è stato sviluppata nella forma dell'autore di Eb, sia nella sua estensione come nella sua profondità.

Tenendo conto della struttura della lettera,28 nella conclusione della prima parte (2,17-18) già si annuncia il tema della seconda parte. Gesù è sommo sacerdote “misericordioso e fedele” (eleemon kaì pistós). La nuova sezione 3,1-5, 10 sviluppa il tema invertendo le due qualifiche: “fedele” (3,1.6), “misericordioso” (4,15-5,10), inserendo una lunga esortazione parenetica (cfr. 3,7-4,14). Tutta la sezione 3,1-5,10 serve come preparazione generale a quello che si dirà più esplicitamente sul sacerdozio di Cristo nel c.7.

Queste due qualità sono le due qualità fondamentali con le quali deve agire come mediatore tra Dio e gli uomini. Non sono due virtù individuali, come potrebbero essere il coraggio o la temperanza, ma stanno in relazione con tutta la persona, esprimono la sua capacità di relazione. Per questo motivo possono definire il sacerdote, perché la funzione di questi consiste in stabilire buone relazioni tra il popolo e Dio. La funzione di mediatore richiede una doppia capacità di relazione, relazione con Dio e relazione con gli uomini.29

Innanzitutto, eleemon esprime la capacità di relazione con gli uomini. Già l'inizio della frase 2,17 lo dimostra, dicendo che Cristo "doveva rendersi in tutto simile ai suoi fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso". Si tratta delle relazioni coi fratelli. Poi, il v. 18 spiega chiaramente l'idea: "proprio per essere stato messo alla prova ed aver sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova". La misericordia sacerdotale è presentata come una compassione fraterna, fondata sull'esperienza delle stesse difficoltà e tribolazioni. Avendo sofferto, Cristo è reso capace di compatirci.

La stessa prospettiva si ritrova all'inizio della sezione corrispondente, cioè, in 4,15: "Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque… per ricevere misericordia".

Per esercitare il ministero sacerdotale è necessario comprendere profondamente le necessità degli uomini, condividere le loro debolezze, sentire il bisogno di aiutarli; in una parola, si deve essere misericordiosi.

Tuttavia la misericordia non è sufficiente. È necessario, inoltre, una capacità di intervento presso Dio a favore degli uomini. Altrimenti la mediazione sarebbe sterile. La funzione del sacerdote non consiste sola nel compatire, ma anche nel trovare il rimedio alla situazione dei peccatori, ottenendo per essi il perdono di Dio, mettendo fine alle tribolazioni. Per questa funzione positiva, c'è bisogno di un'altra capacità di relazione, quella che si riferisce a Dio. Il sacerdote deve essere fedele "nelle cose che si riferiscono a Dio" (2,17: pistos ta pros ton Theon).30 In altre parole, il sacerdote deve essere “accreditato presso Dio”. È la posizione che occupa Cristo glorificato (cfr. At 17,31).

La qualifica pistos comprende due aspetti che corrispondono alle due direzioni della mediazione: degli uomini verso Dio e di Dio verso gli uomini. Il primo aspetto è quello fondamentale, è in riferimento con l'accesso a Dio. Cristo è pistos ta pros ton Theon in quanto è accetto a Dio, è gradevole a Dio. Più uno è unito a Dio e più è in grado di intercedere per noi (Eb 7,25).

L'altro aspetto di Cristo pistos è in riferimento con la sua autorità su noi. Cristo non è solo in grado di parlare con Dio a nostro favore, ma anche a noi a nome di Dio. È degno di fede nel senso che la sua parola ha autorità divina. Cristo è degno di fede perché è Figlio di Dio, Dio gli ha dato ogni autorità in cielo e in terra e l'ha costituito unica via di salvezza.

Quella che definisce il sacerdote è l'unione di queste due qualità: degno di fede e misericordioso, relazione intima con Dio nella gloria e partecipazione autentica alla solidarietà umana. Nella lettera, le argomentazioni non hanno un'ubicazione casuale bensì voluta per l'autore nella parte riferita al concetto del sacerdote (seconda parte della lettera: Eb 3,1-5,10).31 È facile vedere che il primo aspetto, pistos, corrisponde alla glorificazione di Cristo ed il secondo aspetto, eleemon, corrisponde alla sua Passione.

Osserviamo il parallelismo tra le due sezioni della seconda parte ed i due paragrafi della prima: al primo paragrafo corrisponde la prima sezione; al secondo paragrafo corrisponde la seconda sezione; cioè, pistós, prima sezione, corrisponde alla posizione gloriosa di Cristo presso Dio, descritta in 1,5-14; eleemon, seconda sezione, corrisponde alla solidarietà di Cristo con noi, descritta in 2,5-18. Possiamo osservare che solamente la seconda sezione parla della Passione di Cristo, come il secondo paragrafo. La prima sezione ed il primo paragrafo non dicono niente della Passione. L'unione dei due aspetti è assicurata in Cristo per il fatto che il suo mistero di Passione e glorificazione forma un'unità indissolubile. La glorificazione di Cristo è frutto della sua Passione. Cristo ha raggiunto la sua gloria per la via della solidarietà fraterna, manifestata fino alla morte. Pertanto, la sua gloria non può essere confusa con un trionfo orgoglioso di ambizioni soddisfatte; è la gloria della generosità perfetta. Questa gloria divina ha, quindi, un legame intimo con la misericordia e dà a Cristo i mezzi più efficaci per esercitarla.

c) Conclusione: il dinamismo solidale della nuova alleanza

L'esperienza che realizza il cristiano nella sua adesione a Cristo-sacerdote è l'esperienza della “nuova alleanza”. Da questo punto di vista la citazione di Ger 31, 31-34 (LXX 38,31-34) in Eb 8,8-12 occupa un posto centrale nella lettera, non solamente per la sua ubicazione materiale, ma anche per il suo determinante interesse cristologico-soteriologico. La stessa citazione di Geremia, ripresa parzialmente in 10, 15-17, non ha solo una funzione negativa di critica all'antica alleanza, ma anche e soprattutto, il ruolo positivo di sottolineare la differenza qualitativa tra le due: la nuova alleanza, in effetti, è scritta all'interno non su tavole di pietra bensì nel cuore dell'uomo, e concede realmente e definitivamente il perdono ai peccatori.

Al centro di questa novità (come abbiamo visto) si trova Gesù Cristo, Figlio di Dio e Sommo Sacerdote. Il suo sacrificio autentico e l'influsso dello stesso sui credenti rende possibile per sempre l'accesso a Dio, e pertanto, la comunione con lui. Se si vuole esprimere in una formula breve la novità del sacerdozio di Cristo, si può dire: è il sacerdozio della nuova alleanza. In effetti, nell'ultima Cena, Gesù, prendendo il calice, disse: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” (Lc 22,20; cfr. 1Co 11,25). Cristo è sacerdote nuovo perché è “mediatore di una nuova alleanza” (Eb 9,15).32

L'oblazione sacerdotale di Cristo suppone un'altra novità: in lei si è realizzata una sorprendente unione tra la docilità a Dio e la solidarietà coi peccatori, e questa unione ha iniziato un nuovo dinamismo di alleanza. Nell'AT non c'era la possibilità di unire le due direzioni: per stare con Dio sembrava necessario combattere contro i nemici di Dio. Perciò, dopo l'idolatria del vitello d'oro, i leviti si erano separati dai loro fratelli e avevano cercato di sterminarli, per ottenere il loro sacerdozio (Ex 32,26-29). Gesù, invece, ottenne il suo sacerdozio in modo inverso: per mezzo di una totale solidarietà coi peccatori. La luce che deriva dalla Passione, porta l'autore della lettera agli Ebrei a prescindere dagli aspetti del sacerdozio che prima occupavano il primo piano (cfr. 5,1ss) e a mettere in rilievo, al contrario, altri aspetti esistenti ma che tendevano ad ignorarsi. In un unico e stesso avvenimento Cristo portò fino in fondo la sua solidarietà sacerdotale con gli uomini, scese fino al più profondo della sua miseria, e d'altra parte innalzò questa miseria, grazie alla sua preghiera supplice e alla sua adesione dolorosa all'azione trasformatrice di Dio che riuscì creare quindi in lui l'uomo nuovo, perfettamente unito al Padre e disponibile ai suoi fratelli. In Cristo, così trasformato, si realizzò di nuovo la mediazione tra il livello più basso della miseria umana e la vetta, fino ad allora irraggiungibile, della santità divina. Cristo, "che soffrì e fu esaudito", che "imparò per le sue sofferenze l'obbedienza", si è trasformato nel suo essere nel mediatore più completo. La proclamazione divina si applica a lui in pienezza: egli è sacerdote per sempre.

La sua docilità filiale, lontano dall'ostacolare la solidarietà (Lc 19, 10), lo spinge ad arrivare fino all'estremo. Invece di escludersi a vicenda, le due disposizioni di spirito si rafforzano a vicenda. Per corrispondere pienamente all'amore del Padre, Gesù diede la sua vita per i suoi fratelli peccatori (Fil 2,8). Così, nell'oblazione sacerdotale di Cristo si saldarono le due dimensioni dell'amore - a Dio ed al prossimo -, alle quali corrispondono le due dimensioni - verticale ed orizzontale - della croce. Questa unione indissolubile mette in moto un potente dinamismo di riconciliazione e di comunione: il dinamismo della nuova alleanza che ci è comunicato nell'Eucaristia, sacramento di comunione 33 e fonte di solidarietà.

NOTE

  1. N. CASALINI, Ebrei. Discorso di Esortazione, Gerusalemme 1992; W.L. LANE, Hebrews, (WBC) Dallas 1991; A. VANHOYE Struttura e Teologia nell'Epistola agli Ebrei, P.I.B., Roma 1996; ID., Sacerdotes antiguos y sacerdote nuevo según el Nuevo Testamento, Sígueme , Salamanca 1984 (orig. Parigi 1980); ID., La Cristología sacerdotal de la carta a los Hebreos CEA, Buenos Aires 1997.
  2. In alcuni passi decisivi i due titoli si trovano non solamente insieme, ma anche strettamente vincolati. Questo succede fin dall'inizio della lettera: nell'esordio (1,1-4) e nella prima parte (1,5-2,18). I titoli cristologici appaiono rispettivamente 13 e 17 volte: "Figlio di (Dio)": 1,2.5.5.8; 3,6; 4,14; 5,5.8; 6,6; 7,3.28; 10,29;a cui bisogna aggiungere il titolo di "primogenito", prototókos, in 1,6. (Sommo) sacerdote: 2,17; 3, 1; 4,14.15; 5,5.6 1 0; 6,28; 7,11.15.17.21.26; 8,1.4; 9,1 1; 10,21 (altre 7 volte il titolo non ha valore cristologico).
  3. In questa linea si trovano due testi analoghi: Eb 6,6 e 10,29.
  4. D. PETERSON, Hebrews And Perfection. An Examination of the Concept of Perfection in the "Epistle to the Hebrews" SNTS MS 47, University Press, Cambridge 1982; A. VANHOYE, La 'teleíosis' du Christ: Point capital de la christologie sacerdotale d'Hébreux, NTS 42 (1996) 321-338.
  5. H. HÜBNER, "Teleióo", DENT, 1714-1716.
  6. L'unica eccezione si trova in Lc 13,32 (il significato si inserisce in un schema cronologico, non concerne alla dimensione personale di Gesù, come in Eb, bensì a qualcosa di esterno a lui: ciò che va verso la perfezione è l'opera di Gesù).
  7. Qui, con la citazione del salmo 8, si afferma l'umanità generica in forma implicita, nei versetti successivi si insiste nella totale condivisione con la condizione umana.
  8. L'autore della lettera fa un passo avanti rispetto allo stadio precedente.
  9. Cfr. A. VANHOYE, Sacerdotes antiguos y sacerdote nuevo según el Nuevo Testamento,152-153.
  10. Il verbo "offrire" (prosenégkas: v.7) ha come oggetto "preghiere e suppliche" , e contrasta con l'offerta (prosphére: v. 1) di "doni e sacrifici" dei sacerdoti levitici. L'offerta di Cristo non è rituale, porta alla luce un nuovo concetto di sacrificio: "si offrì da sé stesso" (Eb 9,14).
  11. Per il senso del termine cfr. C. ZESATI ESTRADA, Hebreos 5,7-8. Estudio Histórico-exegético, AnB 1 1 3, PIL, Roma 1990, 171-241.
  12. La frase di 5,8 indica inoltre che la trasformazione che si è ottenuta non riguarda unicamente la situazione esteriore come succede nel caso in cui un uomo minacciato si vede all'improvviso libero di ogni pericolo, ma anche e soprattutto una trasformazione personale dell'offerente per mezzo della sofferenza educativa. Incontriamo qui l'innovazione più radicale rispetto all'antico sacerdozio.
  13. L'elemento decisivo di un vero sacrificio è l'accettazione da parte di Dio, poiché se l'offerta non è accettata da lui, neanche rimane santificata - è Dio che santifica - e, pertanto, non c'è vero sacrificio. Solamente l'offerta di Cristo che "offrì e fu esaudito", ha costituito un sacrificio nel pieno senso della parola. Questo compimento si deve alla preghiera di Cristo che aprì la miseria umana all'azione santificatrice di Dio (cfr. 10,11ss: sull'efficacia del sacrificio di Cristo). Cfr. VANHOYE, Sacerdotes antiguos y sacerdote nuevo según el Nuevo Testamento, 47.
  14. Una vera consacrazione sacerdotale dovrebbe consistere in una trasformazione profonda del futuro sacerdote che lo renda realmente perfetto, al fine di essere degno di entrare in relazione con Dio. Senza una trasformazione radicale del suo essere, l'uomo peccatore si trova nell'impossibilità di avvicinarsi al Dio santissimo e quindi di esercitare il sacerdozio. Gli è indispensabili una téléiosis. Il levitico ha perfettamente ragione quando stabilisce l'obbligo di realizzarla. Ma il rituale previsto non risponde all'esigenza della situazione (cfr. Lv 8,22-28). Simili riti esterni simboleggiavano una trasformazione, ma senza potere alcuno per realizzarla.. Tutto rimaneva nell'ambito superficiale della "carne", "senza efficacia né utilità alcuna," al livello della legge antica: "La Legge - osserva l'autore - non portò niente alla perfezione" (Eb 7,19); pertanto era incapace di effettuare una vera consacrazione sacerdotale. Per questo motivo era necessario che fosse "suscitato" un sacerdote differente, un sacerdote costituito come tale per mezzo di un'autentica téléiosis. La trasformazione alla quale Cristo si sottomise non riguardò in lui il Figlio di Dio, bensì l'uomo in carne ed ossa. L'autore lo sottolineò già nel testo di 5,7-9, al quale rimanda per questa vocazione. Cfr. A. VANHOYE, Sacerdotes antiguos y sacerdote nuevo según el Nuevo Testamento 178-179.
  15. La funzione retorica del participio "reso perfetto" (teteleioménon) che chiude enfaticamente il v.28, è messo in luce da A. VANHOYE, La 'teleíosis' du Christ 223s.
  16. La BJ nella sua nota a 5,9 spiega: "Nel suo ufficio di Sacerdote e Vittima".
  17. Cfr. CULLMANN, Christologie, 82-86.
  18. Questa è oggi l'interpretazione più in voga, sebbene con sfumature distinte. Cfr. D. PETERSON, Hebrews and Perfection; A. VANHOYE, La 'teleíosis' du Christ
  19. LXX: teleioún tàs cheîras; TM: millê'yad; cfr. Ex 29,9.29.33.35; nel Lv 4,5 si parla di "sacerdote unto consacrato (cioè: a cui sono state legate le mani: ho iereùs ho christòs ho teteleióménos tàs cheîras)" ecc.
  20. LXX: teleíósis; TM: millu'îm; cfr. Ex 29,22.27.31 ecc.
  21. Il concetto di solidarietà merita due osservazioni ulteriori. a) La prima si riferisce al sacerdozio ebraico. Mentre nell'AT si insiste sulla separazione e distinzione dei Sommi Sacerdoti rispetto al popolo (cfr. Ex 28-29; Lv 8 - 1 0; la piastra di oro sistemata sul turbante di Aronne portava l'iscrizione Qodeö le YHWH, "consacrato a YHWH" [Ex 28,36]; e secondo la Mishnah il Sommo Sacerdote era isolato dalla sua famiglia sette giorni prima dello Yôm Kippûr in una stanza contigua al Tempio [Yom. I,I]), invece Eb insiste sulla profonda solidarietà di Gesù con gli uomini (cfr. 2,9-18; 4,14-15; 5,7-8).

b) La seconda osservazione è in relazione col messianismo. Mentre la cristologia tradizionale insiste ancora sulle categorie reali davidiche, qui, invece, passa decisamente alle categorie di un messianismo sacerdotale, ritoccate nel senso che l'espiazione realizzata dal sacerdote non è in maniera rituale bensì (questa è la cosa inaudita) personale ed esistenziale; in questo modo si recuperano tutti gli aspetti di debolezza, umiliazione, sofferenza, morte, che erano incompatibili col messianismo reale. In effetti, le due volte che si menziona Davide in Eb 4,7 e 11,32 non appare la nota messianica, ed inoltre, le citazioni dei Salmi 2 e 110 sono riletti ora secondo categorie sacerdotali.

  1. D. PETERSON, Hebrews and Perfection, 191-195, il quale si appoggia sul fatto che, secondo Lv 16,15 l'immolazione del capro maschio si realizzava fuori (davanti) del Santuario vero, ma con l'intenzione di introdurre dopo il sangue all'interno dello stesso santuario.
  2. Contro A. VANHOYE, Situation du Chrit. L'épître aux Hébreux 1-2, LD 58, Cerf, Parigi 1969, 380-381; W.L. LANE, HEBREWS, 1, 66: "Il concetto implica sacrificio, e in questo contesto l'opera del Figlio consiste nel dare la sua vita per gli altri".
  3. C. ZESATI ESTRADA, Hebreos, 5,7-8; 128-141.
  4. Per un primo assaggio del tema nella sua complessità si veda A. VANHOYE, Sacerdotes antiguos y sacerdote nuevo según el Nuevo Testamento, 17-80.
  5. Nei Sinottici, in Gv ed in At è usato solo in riferimento ai sacerdoti ebrei (cfr. Mc 15,3; Gv 7,32; At 4,6). Nelle lettere paoline non appare mai, né in un senso né in un altro. In Ap è presente solo al plurale designando tutti i cristiani (cfr. 1,6; 5,10; 20,6). Il titolo cristologico riappare in 1Clem 36,1 e 61,3. D'altra parte nel NT appare solo il sostantivo astratto "sacerdozio" (hierátema: 1Pt 2,5.9), applicato a tutta la comunità (cfr. Es 19,6).
  6. Cfr. Rm 3,25; Ef 5,2; Mt 26,28; At 20,28; Gv 17,19; Ap 5,9.
  7. VANHOYE, El mensaje de la carte a los hebreos, Cuad. Bib. 19, Verbo Divino, Estella (Navarrina) 1993, 30ss: divide la lettera in cinque parti:

I: Il nome di Cristo 1,5-2, 18; II A: Gesù sommo sacerdote degno di fede 3,1-4, 14;

II B: Gesù sommo sacerdote misericordioso 4,15-5.10; Esortazione preliminare 5, 1 1-6, 20; III A: Sommo sacerdote a somiglianza di Melchisedek 7,1-28;

III B: Reso perfetto 8, 1-9, 28;III C. Causa di un statuto eterno 1 0, 1 - 1; Esortazione finale 10, I 9-39; IV A: La fede degli antichi 11, 1-40;

IV B: La pazienza necessaria 12,1-13; V: Raddrizzare le strade 12,14-13, 21. Ricordiamo che il raggruppamento delle sezioni in cinque parti si basa sulle indicazioni date dallo stesso autore della lettera nei cinque annunci di tema. Risulta che lo schema ottenuto presenta una simmetria che è di tipo concentrico. Altre proposte: cfr. Bibbia di Gerusalemme, 3a Ed. 1998.

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  1. VANHOYE, Struttura e Teologia, 95.
  2. La traduzione di alcune Bibbie, tra esse la BJ, "fedele in ciò che riguarda Dio", non esprimerebbe sufficientemente il senso del testo.
  3. Come è proprio nella struttura di Eb, il tema è anticipato alcuni versetti previ: 2,17-18.
  4. L'insistenza sulla mediazione e sull'alleanza è già una prima novità rispetto all'AT. Nel Sinai, la conclusione della prima alleanza non aveva contato sull'intervento dei sacerdoti (Es 24,4-8). I sacerdoti si riferivano, non alla mediazione dell'alleanza, bensì al culto divino. Il sacerdozio supponeva un grande onore perché i sacerdoti erano considerati tali per opera di Dio (si veda Es 28,1; 29,1). Ad essi competeva il diritto di offrire i sacrifici a Dio e di entrare nella sua casa. E poiché il sommo sacerdote aveva il privilegio di entrare una volta all'anno nella parte più sacra del Tempio, appariva come un essere quasi celeste, innalzato al di sopra del popolo (cfr. Ecl 45, 6-13; 50,7). Invece, Gesù nell'ultima Cena si presentò semplicemente "come uno che serve" (Lc 22,27). Nell'istituzione dell'Eucaristia espresse e rinforzò una doppia relazione: in primo luogo, la sua relazione con Dio, suo Padre, con la sua preghiera di azione di grazie; e, subito dopo, la relazione coi discepoli, ai quali diede a se stesso. il suo corpo ed il suo sangue. Questa seconda relazione ebbe un'espressione molto più forte della prima. Analogamente, la lettera agli Ebrei sostituì la visione unilaterale del sacerdozio propria dell'AT - costituiti sacerdoti per Dio (Es 28, 1; 29, I) - con una prospettiva bilaterale: ogni sommo sacerdote, "preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio" (Eb 5,1). L'autore incomincia dicendo "costituito per il bene degli uomini" e dopo precisa solo l'altro lato della mediazione, parlando delle relazioni con Dio. Applica a Cristo tre volte quel titolo di mediatore che non si trova mai nel Pentateuco ed una sola volta nel resto dell'AT ed anche qui come qualcosa di impossibile (cfr. Gb 9,33). Invece, nella lettera agli Ebrei si afferma non solo che Cristo è mediatore, ma è mediatore dell'alleanza (Eb 8,6; 9,15; 12,24), perché lega strettamente sacerdozio ed alleanza. Di tutti gli scritti del NT è Eb quello che parla più spesso di alleanza: Diatheke (alleanza) si trova nella lettera 17 volte contro 16 nel resto dal NT. Questo è quanto ha voluto sottolineare recentemente A. VANHOYE, "La novità del sacerdozio di Cristo", La civiltà cattolica n. 3541 (1998) 16-27; articolo estratto da Selezioni di Teologia 38 (1999), 3-9.
  5. ID., 27. Per il tema "eucaristia" nella lettera agli Ebrei cfr. J. SWETNAM, Christology and the Eucharist in the Epistle to the Hebrews, Bibl 70 (1989) 74-95; M.E. Isaac, Hebrews 13,9-16 Revisited, NTS 43 (1997) 268-284; un'allusione al tema in G. LEONARDI, "I discepoli di Gesù terreno ed i ministeri nelle prime comunità. Rottura o normale evoluzione?", in R. FABRIS (ed.), La parola di Dio cresceva (At 12,24), SuppRivBibl. 33, Bologna 1998, 476.