DOSSIER CENTRALE

NOVO MILLENNIO INEUNTE

IL GRANDE GIUBILEO:

UN’EREDITÀ DA SVILUPPARE

Andrea Tessarolo, scj

“Novo Millennio Ineunte”: questo il titolo della lettera che il papa Giovanni Paolo II ha pubblicato a conclusione del Grande Giubileo. In essa Egli ricorda i “frutti” del Giubileo e, soprattutto, mira ad assicurarne la fecondità per l’avvenire. Per la Chiesa, infatti, col nuovo millennio si apre a un nuovo cammino e il Papa ci invita a percorrerlo con lo spirito che ci viene suggerito dalle parole di Gesù a Pietro: Duc in altum: mirare lontano (Lc 5,4).

L’intero contenuto della Lettera si può riassumere nel triplice invito: fare memoria grata del passato, vivere con passione il presente, aprirci con fiducia al futuro.

Ci sembra importante accogliere questo invito del Papa, offrendo un breve riassunto di questa sua Lettera, facendo “memoria” dei momenti più salienti dell’intero anno giubilare.

Memoria grata del passato

Giovanni Paolo II ha vissuto diversi anni del suo pontificato come illuminato dal sogno non solo di vedere, ma di essere lui stesso nell’anno 2000 alla guida della Chiesa, auspicando “che la celebrazione bimillenaria del mistero dell’incarnazione fosse vissuta come un “ininterrotto canto di lode alla Trinità” e, insieme, come un cammino di riconciliazione e di speranza per tutti i credenti.

Questo suo “sogno” è diventato realtà. Perciò è più che naturale che le sue prime parole di commento al grande evento siano: “Grande è stata la gioia”, “Noi ti rendiamo grazie”, “grata memoria”, “dimensione di lode”… per i molti doni accordati a tutta la Chiesa.

In questo modo il Papa ci fa comprendere con quale intensa partecipazione egli ha vissuto il grande Giubileo, celebrazione bimillenaria del mistero dell’incarnazione, proposto e vissuto come un cammino di riconciliazione e di speranza, e insieme come un “ininterrotto canto di lode alla Trinità”.

Di fronte alle meraviglie che Dio ha compiuto per noi, “non possiamo sottrarci al dovere della gratitudine. D’altra parte, quanto è avvenuto sotto i nostri occhi chiede di essere riconsiderato,… decifrato, per ascoltare ciò che lo Spirito ha detto alla Chiesa” (n. 2).

Nella lista dei “doni” di fronte ai quali non possiamo sottrarci al dovere della gratitudine, il Papa ricorda per prima cosa l’oggi della salvezza: “il Giubileo, scrive, ci ha fatto sentire che duemila anni di storia sono passati senza attenuare la freschezza di quell’oggi in cui gli angeli annunciarono ai pastori: oggi è nato per voi un Salvatore… che è Cristo Signore” (n. 4).

Ma poi vengono ricordati anche i singoli eventi che hanno come scandito il calendario dell’Anno giubilare, a cominciare dalla solenne apertura della Porta Santa, la notte di Natale 1999; poi il giubileo delle persone consacrate (2 febbraio); poi, il Primo di maggio, il raduno dei lavoratori in piazza S. Giovanni; il 7 maggio, al Colosseo, il ricordo dei martiri cristiani dei primi secoli, cui il Papa, con intento chiaramente ecumenico, ha voluto associare la memoria di tutti i martiri per la fede del XX secolo, anche non cattolici; poi la visita ai carcerati; poi il Giubileo delle famiglie; il Congresso eucaristico; e poi ancora, indimenticabile, il gioioso incontro a Tor Vergata con i giovani di tutto il mondo, sul quale ritorneremo.

L’insieme di tutti questi grandi eventi del Giubileo il Papa li considera come un unico grande “tesoro”, dono gratuito dell’amore di Dio a noi in Cristo. Un “tesoro” che non va dissipato né dimenticato, ma anzi custodito e trasmesso alle nuove generazioni come preziosa “eredità”.

L’intero anno giubilare, infatti, è stato vissuto non solo come memoria del passato, ma anche come profezia per l’avvenire (n. 3). Non basta, quindi, averli nominati. È necessario soffermarci almeno su qualcuno tra i più straordinari.

Purificazione della memoria

È nella tradizione che l’anno giubilare sia fortemente caratterizzato dai temi della conversione, delle indulgenze e del rinnovamento interiore non solo per le singole persone, ma anche per l’intera Chiesa.

Una novità assoluta invece è stato, nel rituale di un giubileo, l’invito insistente del Papa, rivolto a tutta la Chiesa, di “purificare la memoria”. Egli stesso ne ha dato l’esempio concreto quando, il 12 marzo, dalla Basilica di S. Pietro ha chiesto pubblicamente scusa per tutte le colpe della Chiesa lungo la storia.

“Come non ricordare, scrive lo stesso Pontefice, la toccante Liturgia del 12 marzo 2000: io stesso, nella Basilica di S. Pietro, fissando lo sguardo sul Crocifisso, mi sono fatto voce della Chiesa, chiedendo perdono per il peccato di tutti i suoi figli” (n. 6).

Questo gesto, davvero sorprendente, il Papa lo ha ripetuto poi altre volte, sotto forme diverse, durante il suo viaggio in Terra Santa, e in particolare visitando il Cenacolo, il Calvario, il Santo Sepolcro, il Muro del Pianto…

Gesti come questo non sempre né da tutti sono condivisi. Ma, nonostante l’usura del tempo, non cessano di stupire.

Il giornalista Gad Lerner, di estrazione ebraica, ad esempio, che è uno dei più noti al pubblico televisivo italiano, in un’intervista per “Evangelizzare” (01/2001, p. 302) si dichiarava tra coloro che avevano apprezzato assai la liturgia penitenziale del 12 marzo in S. Pietro, anzi la considerava “l’avvenimento in qualche modo centrale del giubileo”, l’evento che ha reso questo giubileo “diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto”.

E spiegava: “Giovanni Paolo II ha potuto permettersi questo atto penitenziale perché è il capo religioso più autorevole della terra”… Questo aver posto in modo così solenne davanti a Dio, e quindi davanti alla coscienza di quanti credono in Dio, “tutto questo cammino di purificazione, soggiungeva, è un fatto che conta… conta molto più di qualsiasi atto politico, più di qualsiasi confronto diplomatico”. È stato un atto che sarà “pieno di conseguenze sul futuro”.

Ciò non significa che le brevi parole pronunciate dal Papa il 12 marzo in S. Pietro abbiano soddisfatto tutti. Anzi, la prima reazione dell’opinione pubblica, soprattutto in Israele, fu di delusione. - Non basta, il testo è reticente, bisognava dire ben altro - … fu il commento dei più. “Ma quando quelle stesse identiche parole sono state scritte sul biglietto che Giovanni Paolo II ha posto nella fessura del Muro del Pianto, di colpo l’atteggiamento è cambiato, perché quel gesto, quel parlare a Dio in modo così ebraico non poteva che toccare il cuore degli ebrei”, per l’autenticità dell’intenzione, per il sincero riconoscimento delle “radici comuni” che con quel gesto diventava esplicito.

Condanna della guerra e dialogo interreligioso

Umile e accorata è stata la preghiera del Papa per la “purificazione della coscienza”; ma chiara e forte anche la condanna della violenza, della guerra, dell’intolleranza etnica o religiosa, e in particolare dell’antisemitismo. Lo ha ribadito con forza sia presso il Muro del Pianto sia durante la visita del 23 marzo al Yad va Shem, il memoriale della Shoà. “La Chiesa, ha dichiarato, è profondamente rattristata per l’odio, per gli atti di persecuzione e per le manifestazioni di antisemitismo, dirette contro gli Ebrei da cristiani in ogni tempo e in ogni luogo”.

Chiara affermazione delle radici ebraiche del Vangelo ed esplicita condanna di ogni forma di antisemitismo sono un contributo importante per lo sviluppo del dialogo tra cristiani ed ebrei a tutti i livelli.

Un forte richiamo è stato espresso dal Papa anche sul tema della pace tra ebrei e palestinesi e sul tema di un dialogo che si svolga sempre nel reciproco rispetto, superando ad ogni costo la tentazione dell’intolleranza. Certo, la ricerca della pace non può misconoscere l’esigenza di assegnare finalmente un “paese vero”, un “patria vera” al popolo palestinese. Ma la strada per raggiungere questo traguardo non può, non dev’essere l’intolleranza, la violenza, la guerra. Le diversità etniche, o culturali, o religiose non devono mai essere motivo di guerra, ma occasione di dialogo. Fermissima quindi la sua condanna per ogni forma d’intolleranza religiosa e ogni fondamentalismo. “La religione, ha ripetuto, non è e non deve diventare un pretesto per la violenza, in particolare quando l’identità religiosa coincide con l’identità etnica e culturale”.

Il legame del Vangelo con le altre tradizioni religiose che si rifanno alla fede di Abramo rimane quindi uno dei punti fermi maggiormente sottolineati dal Papa nel corso dell’Anno giubilare. Anche il 13 gennaio di quest’anno 2001, rispondendo agli auguri del Corpo diplomatico presso la Santa Sede, la sua voce s’è fatta invito accorato: “In questo inizio di millennio, supplicava, tutti insieme salviamo l’uomo!” E sottolineava che questa sua preoccupazione non era solo per l’uomo “cristiano”, ma proprio per “l’uomo”, per “ogni uomo”.

“Vorrei ripetere e ridire la determinazione della Chiesa Cattolica - inisteva - a difendere l’uomo, la sua dignità, i suoi diritti e la sua dimensione trascendente”. Tutto questo comporta non solo la condanna di ogni integralismo sia culturale che religioso, ma anche un serio impegno a seguire sempre e solo la via del dialogo e del reciproco rispetto, coltivando un atteggiamento di sincero ascolto della voce dello Spirito, perché solo se uomini e popoli accetteranno di vivere insieme potranno avere un futuro.

Il secolo dei Martiri

La viva coscienza penitenziale, che caratterizzava le celebrazioni di questo Grande Giubileo, “non ci ha impedito, prosegue il Papa, di rendere gloria al Signore per quanto ha operato”, anche nel sec. XX, “assicurando alla sua Chiesa una grande schiera di santi e di martiri” (n. 7).

Molto si è fatto durante l’Anno santo, per recuperare le “memorie” dei Testimoni della fede del sec. XX. Ed ha avuto un significato altamente ecumenico il fatto di averli commemorati il 7 maggio 2000 al Colosseo, “insieme con i rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali”.

La nostra Congregazione SCJ non si è sentita estranea a queste celebrazioni, contando nella sua breve storia ben 44 martiri. Tra essi ci è caro ricordare mons. Joseph Albert Wittebols (1912-1964), vescovo di Wamba (Congo), vittima della violenza dei Simba; i confratelli p. Nicola Martino Capelli (1912-1944) e p. Aquilino Bernardo Longo (1907-1964), dei quali è stata introdotta la causa di beatificazione; e soprattutto il beato Juan García Méndez (1891-1936), il primo dehoniano ad essere beatificato per aver testimoniato fino al martirio la sua fedeltà a Cristo e al suo Vangelo (cf. in questo quaderno un articolo sulla sua vita e il suo martirio).

Con lettera del 18 dicembre 2000, il Superiore generale annunciava a tutto l’Istituto la ormai imminente beatificazione del p. Juan García Méndez, fissata per l’11 marzo 2001. E soggiungeva: “Sarà il primo Beato SCJ. È il nostro protomartire. In effetti egli è al primo posto nella lista degli altri 44 martiri che la Congregazione ha avuto nel secolo XX”.

E allegava in nota la lista completa, che noi pure riproduciamo in nota.1

La Giornata Mondiale dei Giovani

“Come non ricordare il gioioso ed entusiasmante raduno dei giovani? Se c’è un’immagine del Giubileo del 2000 che più di altre resterà viva nella memoria, scrive ancora il Papa, sicuramente è quella della marea di giovani con i quali ho potuto stabilire una sorta di dialogo privilegiato, sul filo di una reciproca simpatia e di un’intesa profonda” (n. 9).

La giornata mondiale della gioventù, del 19 e 20 agosto 2000, è risultata sorprendente non solo per il numero dei partecipanti, ma anche per i messaggi che i giovani hanno ricevuto e trasmesso. La stampa e la radio, ma soprattutto la TV, hanno fotografato e fatto conoscere una religiosità nuova, che in un mondo segnato dall’effimero, riesce a suscitare emozioni profonde, e comunicare valori importanti.

La manifestazione di Tor Vergata ci ha dimostrato che non sono pochi i giovani, anche delle estrazioni più diverse, che sono alla ricerca di messaggi che parlino non soltanto alla ragione, ma anche al cuore, preoccupati non solo della “carriera” o del “conto in banca”, ma anche di messaggi e valori che diano un senso al proprio “vivere”.

“L’apporto personale del Papa alla nascita e alla crescita di questo fenomeno - sostenuto il card. Martini - è stato decisivo. Ha colto per primo che i tempi erano cambiati… quando noi eravamo ancora traumatizzati dalla contestazione e temevamo ogni esteriorità. Ha colto che si poteva osare molto di più; l’ha osato e i giovani hanno corrisposto”.

Di fatto, il Papa, negli incontri diretti con i giovani, non ha fatto mancare le “proposte forti”. La posta esatta della sfida era: “Che cosa, anzi Chi siete venuti a cercare”… “La risposta, aggiungeva lui stesso, non può essere che una sola: siete venuti a cercare Gesù Cristo, a fissare lo sguardo sul suo mistero”.

Nella conversazione della veglia, il 19 agosto, Egli ha saputo coinvolgere quella marea di giovani attraverso un linguaggio che pare antico ed è sempre nuovo. Ha parlato della difficoltà, per i giovani d’oggi, a vivere la purezza nell’attesa del matrimonio; ma anche della lotta per far amare e rispettare la vita. Ha ricordato la reciproca fedeltà delle giovani coppie, la lealtà nei rapporti tra amici, la difficoltà a vivere la solidarietà e la pace nel mondo. Ha anche invitato alla generosità di una vita totalmente donata a servizio di Dio o del prossimo, se qualcuno ne sente un qualche richiamo…

E i giovani, in questo, lo hanno capito. Testimonianze ne sono giunte numerose. Sentiamone almeno qualcuna… “La mia vita è cambiata grazie a Cristo. A Roma, martedì sera, ho già assistito a un po’ di paradiso” (Bayouma, Ind.); “Ero giunta a Roma con la disperazione nel cuore. Le parole del Papa: ‘Aprite il vostro cuore a Cristo’ mi hanno ridato speranza” (Dori, M.); “Sono un arabo cristiano. Saluto tutti gli arabi cristiani e dico loro: credo in una santa cattolica apostolica Chiesa” (Traib.); felici, tutti felici: “non perché eravamo due milioni o perché c’era il Santo Padre, ma perché stavamo cercando Gesù. Che si è fatto trovare: nel volto del fratello, nei chilometri fatti insieme, sotto la doccia fredda, nel confessionale,… ma sempre quando meno ce l’aspettavamo! Ma il bello viene adesso: non sprechiamo l’occasione di mettere fuoco nel mondo” (R. Prost).

Vivere intensamente il presente

Centralità di Cristo nella vita di fede

Non è facile raccogliere in poche righe eventi religiosi di portata mondiale com’è stato questo Giubileo del 2000. Ma è bello poter rilevare che il sottofondo essenziale di tutte queste celebrazioni è stata la dimensione interiore della vita cristiana, la contemplazione adorante del volto di Cristo (n. 15). I diversi eventi del Giubileo non facevano che celebrare quella assoluta novità che è la sostanza, il nucleo stesso della fede cristiana, cioè l’incarnazione del Figlio di Dio. Una novità che interessa e interpella i popoli, le culture, le mentalità.

Non a caso il Papa, ad ogni nuovo gruppo di pellegrini che giungevano a Roma ripeteva sempre la stessa domanda: “Che cosa?” o meglio “Chi siete venuti a cercare?” E la risposta della fede non poteva essere che quella dell’apostolo Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). Così Gesù di Nazaret, Figlio di Maria e Figlio di Dio, è stato annunciato, e invocato, e celebrato forse come non mai prima di questo giubileo. È Lui che, morto per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione, rende anche noi persone dal cuore nuovo.

Veramente, il compiersi del secondo millennio ci ha portato a un recupero sostanzioso del mistero dell’Incarnazione, e quindi a comprendere e vivere in modo nuovo anche la carità, il perdono reciproco, la solidarietà, la missionarietà. E scorgendo quelli che erano i sentimenti che animavano il Cuore di Cristo nel mistero dell’incarnazione, si giungeva anche a riscoprire la spiritualità dell’Ecce venio, nel suo cuore biblico e nella sua valenza apostolica. Contemporaneamente questa straordinaria familiarità col “Gesù del Vangelo” ha contribuito a rendere di nuovo più familiare a tutta la Chiesa il mistero della comunione trinitaria del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, di cui la stessa comunità cristiana è chiamata ad essere immagine terrena. Solo vivendo così la fede, si rende presente il Vangelo.

Una certa stampa, pur dimostrando rispetto e stima per il carattere spesso straordinario di certe celebrazioni, ha espresso il sospetto di puro esteriorismo, o di esagerato “protagonismo”, insistendo più sulla persona del Pontefice che non sul mistero che veniva celebrato. Certo, un tale rischio può esserci stato per alcuni, ma spesso è dovuto ai “media”, e assai raramente giunge a turbare la fede “ingenua” o la gioia spontanea dei pellegrini.

Sono numerose invece le testimonianze di una adesione semplice e gioiosa al “mistero”, certamente favorita anche dal clima celebrativo delle grandi manifestazioni di massa. “Sono arrivata a Tor Vergata, scrive ad esempio una giovane. Ho deposto lo zaino, mi sono guardata intorno. In un attimo ho capito cosa voleva dire essere figli dello stesso Padre”.

Il Papa del resto non ha mai cessato di ripetere ai giovani di guardare a Cristo, e accoglierlo nel cuore e nella vita. “Cari giovani, diceva loro anche al foro internazionale del 17 agosto 2000, non dubitate dell’amore di Dio per voi! Egli vi riserva un posto nel suo Cuore e una missione nel mondo… Nel Vangelo, il Risorto pone a Pietro la domanda: “Simone di Giovanni, mi ami?” (Gv 21,16). Gesù non gli chiede quali siano i suoi talenti, le sue capacità; a lui, che lo aveva appena rinnegato, non gli domanda neppure se d’ora in poi sarà più fedele. “Gli domanda la sola cosa che conta: Mi vuoi bene?”.

“Oggi il Cristo rivolge la stessa domanda a ciascuno di voi: Mi vuoi bene?… Tutto il resto verrà di conseguenza. Infatti, mettere i propri passi sulle orme di Gesù non si traduce immediatamente in cose da fare o da dire, ma innanzitutto nel fatto di amarlo, di restare con lui, di accoglierlo completamente nella propria vita”.

Particolarmente significativa e sorprendente questa testimonianza: “Com’è strano! Non pensavo di poter scrivere mai queste parole. Dopo 18 anni passati lontano dalla Chiesa, sempre in cerca di una verità più terrena che spirituale; oggi sono qui a testimoniare la grandezza di Cristo. Che gioia è stata per me la Giornata Mondiale dei Giovani! Attraversare la Porta Santa assieme a tanti giovani più credenti di me, ascoltare le parole del Papa a Tor Vergata dopo la lunga marcia, mi ha dato una forza che non sapevo di avere. Grazie “Nonno”. Quando mi sei passato a fianco solo per un attimo, mi sono sentito vibrare dentro, e ho pianto davvero tanto, e insieme a te mi sento pronto ad incendiare il mondo aiutando il prossimo. Ciao M. Angela. È stato magnifico essere a Roma con te. Grazie per avermi portato” (Nicola, Bari).

Vocazione alla santità

A questo tema del “Vivere intensamente il presente”, incarnando nel concreto del nostro “quotidiano” le virtù teologali della fede e della carità, il Papa dedica diverse pagine della sua Lettera.

La prospettiva è squisitamente spirituale: “la contemplazione del volto di Cristo”. Una contemplazione fondata sulla testimonianza dei Vangeli (n. 17), seguendo la via della fede (n. 19). E i Vangeli ci mostrano, di Cristo: il volto filiale (n. 24); il volto dolente (è l’aspetto paradossale del mistero cristiano) (n. 25); ma anche il volto finalmente trasfigurato del Risorto (n. 28), che è come il punto di arrivo del cammino della fede.

Al Cristo risorto infatti ormai la Chiesa guarda, e lo fa sia seguendo le orme di Pietro: “Tu lo sai, Signore, che io ti amo!” (Gv 21,17), sia accompagnandosi a Paolo che, folgorato dal Risorto sulla via di Damasco, ripete: “Per me il vivere è Cristo, e il morire un guadagno” (Fil 1,2) (n. 28).

A questo punto viene spontanea l’esortazione a mettersi con fiducia in ascolto della Parola e rendersi disponibili a collaborare apostolicamente per l’avvento del suo Regno di giustizia e di pace, nella chiesa e nel mondo.

La stessa Chiesa, soggiunge il Santo Padre, è nata dal Cuore di Cristo e vive della sua continua presenza: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (28,20). Il programma dell’impegno cristiano, perciò, dovrà mirare non tanto alla ricerca di nuove iniziative o pratiche devozionali, ma incentrarsi “in Cristo stesso, da conoscere, da amare e imitare, per vivere in lui la vita trinitaria” e contribuire con lui a trasformare la storia fino al suo definitivo compimento nella Gerusalemme celeste (cf. 29).

Questo, in sintesi, il cammino proposto dal Santo Padre: Riscoprire in tutto il suo valore il cap. V della LG sulla “vocazione universale alla santità”. “La riscoperta della Chiesa come mistero, ossia come popolo adunato nell’unità del Padre, e del Figlio, e dello Spirito, non poteva non comportare anche la riscoperta della sua santità, intesa nel senso fondamentale di appartenenza a Colui che è Tre Volte Santo”. Questo dono di santità si traduce a sua volta in un compito, che deve governare l’intera esistenza cristiana: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Ts 4,3) (n. 30).

L’arte della preghiera e vita liturgica

È necessario poi riscoprire l’arte della preghiera. La pedagogia della santità conosce solo questa strada. L’arte del pregare, che dobbiamo apprendere dalle labbra stesse del Maestro divino: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). La pratica della preghiera che si sviluppa attraverso il dialogo con Cristo che ci rende suoi intimi: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4).

Un terzo obiettivo viene indicato dal Santo Padre, ed è la vita liturgica, ma con particolare attenzione all’Eucaristia domenicale: “culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, fonte da cui promana tutta la sua virtù”. Questo impegno a fare dell’Eucaristia l’anima di tutta la nostra vita spirituale e pastorale ci richiama anche il principio essenziale della visione cristiana della vita, che è il primato della grazia, e l’alimento della vita di grazia mediante l’ascolto della Parola, ascolto profondo, perché poi diventi parola meditata, parola vissuta, parola testimoniata.

È veramente necessario “il momento della fede, il momento della preghiera, il momento del dialogo con Dio, per aprire il cuore all’onda della grazia e consentire alla Parola di Cristo di passare attraverso di noi con tutta la sua potenza: Duc in altum! Fu Pietro, in quella pesca, a dire la parola della fede: sulla tua parola getterò le reti (ib.). Consentite al Successore di Pietro, in questo inizio del terzo Millennio, di invitare tutta la Chiesa a questo atto di fede, esprimendolo in un rinnovato impegno di preghiera (n. 38).

Aprirci con fiducia al futuro

“Tante cose, anche nel nuovo secolo e nel nuovo millennio, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa”. Ma se venisse a mancare l’amore, la carità, tutto sarebbe inutile, come afferma ripetutamente S. Paolo (1Cor 13,2).

Punto di partenza di questa quarta parte della Lettera non poteva essere, quindi, che il “comandamento nuovo”: “Amatevi gli uni gli altri, così come io ho amato voi” (cf. Gv 13,34). E il Papa parla di un amore che sgorga dal cuore stesso del Padre e, attraverso il Cuore di Cristo, si riversa nei cuori dei credenti che, riuniti nella carità, arrivano a formare come un cuor solo e un’anima sola; una soprannaturale comunione d’amore che incarna e manifesta “l’essenza stessa del mistero della Chiesa, e la costituisce ‘segno e strumento’ dell’intima comunione degli uomini, tra loro e con Dio” (n. 42).

Una spiritualità di comunione

Questo lo “spirito” che anima la Lettera apostolica. Quali le conclusioni che suggerisce? Non le molte iniziative, precisa subito il Papa, ma l’impegno a promuovere una spiritualità della comunione che tutte le riassume. E si preoccupa di far emergere questa spiritualità “come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, … dove si costruiscono le famiglie e le comunità” (n. 43).

Lo stesso paragrafo ha per titolo: Una spiritualità di comunione e subito prosegue: “fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde dell’uomo”.

Quindi ribadisce ripetutamente: “Spiritualità della comunione significa sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto.

Spiritualità della comunione significa capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico; dunque, come ‘uno che mi appartiene’, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia.

Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un ‘dono per me’, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto.

Spiritualità della comunione è infine saper ‘fare spazio’ al fratello, portando ‘i pesi gli uni degli altri’ (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie.

Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita”.

Sempre in questa prospettiva, prosegue il Papa, è importante “valorizzare” quegli ambiti e quegli strumenti che servono a sviluppare e a “garantire la comunione”; coltivare “gli spazi della comunione”, ma anche educare la comunità cristiana a uno spirito di comunione capace di “fare spazio a tutti i doni dello Spirito” (n. 46).

Qui la prospettiva diventa molto ampia, perché richiede una pastorale che “stimoli tutti i battezzati a prendere coscienza della propria attiva responsabilità” nella vita della Chiesa; una “pastorale delle vocazioni” che raggiunga tutti i centri educativi (famiglie, parrocchie, associazioni) suscitando una più attenta riflessione sui valori essenziali della vita; una pastorale vocazionale che educhi la comunità cristiana a meglio comprendere la specificità e l’importanza delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata; che la aiuti a scoprire sempre meglio anche “la vocazione che è propria dei laici”, chiamati come tali a cercare il Regno di Dio anche nella secolarità; che la renda più attenta e impegnata a promuovere una “pastorale familiare” capace di “ri-evangelizzare” quella istituzione fonadamentale che è il matrimonio, così offuscato attraverso la storia per la “durezza del cuore”, ma che il Cristo ha voluto restituire al suo originario “splendore” (n. 47).

L’impegno ecumenico

Il grande Giubileo ci ha fatto prendere più viva coscienza della Chiesa come mistero di unità: “Credo la Chiesa una”. E quindi anche l’importanza e l’urgenza di promuovere “la comunione nel delicato ambito dell’impegno ecumenico” (n. 48).

L’unità della Chiesa, in quanto “corpo di Cristo”, è frutto del dono dello Spirito. La realtà delle divisioni, invece, si genera sul terreno della storia, quale conseguenza dell’umana fragilità nell’accogliere quel dono che continuamente fluisce dall’Alto.

“La preghiera di Cristo, sottolinea il Papa, ci ricorda che questo dono ha bisogno di essere accolto e sviluppato in maniera sempre più profonda. L’invocazione ut unum sint è, insieme, imperativo che obbliga, forza che sostiene, salutare rimprovero per le nostre pigrizie e ristrettezze di cuore. È sulla preghiera di Gesù, non sulle nostre capacità, che poggia la fiducia di poter raggiungere anche nella storia la comunione piena e visibile di tutti i cristiani” (ibid.).

Molto grande è la speranza del Papa “che riprenda pienamente”, tra Roma e la Chiese l’Oriente, “quello scambio dei doni che ha arricchito la Chiesa nel primo millennio”. Così pure sempre vivo è “il ricordo del tempo in cui la Chiesa respirava con due polmoni, camminando insieme nell’unità della fede e nel rispetto delle legittime diversità”. Ed è con questo spirito che dev’essere coltivato il dialogo con i fratelli e le sorelle della Comunione anglicana e con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma protestante.

Intanto “un nuovo secolo, un nuovo millennio si aprono nella luce di Cristo” (n. 54). La Chiesa gode di questa luce, ma ha anche il compito “stupendo ed esigente” di esserne come un riflesso, per farla giungere anche a coloro che ancora non la vedono. Compito che ci fa trepidare, se guardiamo alla debolezza che ci rende tanto spesso opachi e pieni di ombre. Ma compito che diventa possibile se “sappiamo aprirci alla grazia che ci rende uomini nuovi” (ib.).

In quest’ottica si pone anche “la grande sfida del dialogo interreligioso, nel quale il nuovo secolo ci vedrà ancora impegnati” (n. 55).

Già negli anni passati “la Chiesa ha tentato, anche con incontri di notevole rilevanza simbolica, di delineare un rapporto di apertura e di dialogo con esponenti di altre religioni. Il dialogo deve continuare… Ma esso non può essere fondato sull’indifferentismo religioso. Abbiamo il dovere di svilupparlo offrendo la testimonianza piena della speranza che è in noi”, perché essa vuol essere non “offesa all’altrui identità, ma al contrario annuncio gioioso di un dono che è per tutti, e a tutti va proposto con il più grande rispetto della libertà di ciascuno” (n. 56).

Resta quindi fondamentale, per la Chiesa, la missio ad gentes, cioè l’annuncio che per tutti il Cristo è “Via, Verità e Vita” (Gv 14,6). Ma tale compito non ci impedisce di andare al dialogo intimamente disposti all’ascolto. Sappiamo infatti che il “mistero di grazia” è “infinitamente ricco di dimensioni e di implicazioni per la vita e la storia dell’uomo” e la Chiesa stessa non finirà mai di indagarlo. Mentre, d’altra parte, lo Spirito di Dio, che soffia dove vuole, non raramente suscita, nell’esperienza umana universale, “segni della sua presenza che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori” (ibid.). Per cui la Chiesa “riconosce che non ha solo dato, ma anche ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano” (cf. anche Gaudium et Spes, n. 4).

Scommettere sulla carità

Da sempre l’amore del prossimo è stato il distintivo dei veri cristiani. Un amore disinteressato, operoso, a volte veramente eroico. Possiamo chiamarlo per nome: Vincenzo de Paoli, Cottolengo, Padre Kolbe, Teresa di Calcutta…

Il Papa, concludendo la sua Lettera, si augura che il nuovo millennio possa ancora vedere “a quale grado di dedizione sappia arrivare la carità”, soprattutto verso i più poveri. È con essi infatti che Gesù stesso ha voluto quasi identificarsi: “avevo fame e mi avete dato da mangiare…” (Mt 25-35).

Nessuno può essere escluso dal nostro amore. Stando alle parole inequivocabili del Vangelo, certamente “nella persona dei poveri c’è una presenza speciale (del Signore), che impone alla Chiesa un’opzione preferenziale per loro”. Una opzione con la quale si testimonia, in qualche modo, lo stile di Dio, la sua provvidenza, il suo amore misericordioso (n. 49).

Questa riflessione sull’amore per i poveri, ci porterebbe lontano, perché i bisogni che interpellano la sensibilità cristiana oggi sono tanti. E “lo scenario della povertà” potrebbe allargarsi “indefinitamente”. La tradizione di carità ha avuto, in passato, tantissime espressioni. Ma oggi forse si richiede, scrive il Papa, una nuova “fantasia della carità”: una carità che si esprima non solo nell’efficacia dei soccorsi prestati, ma ancor più nella capacità di farsi vicini, per cui il gesto di aiuto sia avvertito non come obolo che umilia, “ma come fraterna condivisione” (n. 50).

Aperta col ricordo commosso e riconoscente dei molti eventi del grande Giubileo, la Lettera del Papa si chiude con un rinnovato invito ad aprire il cuore alla generosità dell’amore e al coraggio della speranza.

Duc in altum: “Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa, come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo… Il nostro passo deve farsi più spedito nel ripercorrere le strade del mondo… Il simbolo della Porta Santa si chiude alle nostre spalle, ma per lasciare più spalancata che mai la porta viva che è Cristo”.

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NOTA

1. Sono questi i nostri martiri:

1936: Beato Giovanni Maria della Croce García Méndez (Spagna)

1941: p. Francesco Stanislao Loh (Germania)

1942: p. Giuseppe Benedetto Stoffels, p. Nicola Antonio Warnpach (Lussemburgo)

1944: p. Nicola Martino Capelli (Italia)

1944-1945: i missionari olandesi morti in campo di concentramento giapponese in Muntok (Indonesia): p. Pietro Mattia Cobben, p. Andrea Gebbing, p. Guglielmo F. Hoffmann, p. Francesco B. Holfstad, p. Teodoro T. Kappers, p. Isidoro G. Mikkers, fr. Gerardo M. Schulte, fr. Teodoro W. Van der Werf, p. Pietro Nicasio van Eijk, p. Francesco J.B. van Iersel, p. Enrico N. van Oort.

1945: p. Christian H. Muermans (Belgio).

1961-1964: 28 missionari (belgi, lussemburghesi, olandesi e un italiano) in Congo: vescovo mons. Giuseppe A. Wittebols, p. Amour J. Aubert, p. Carlo J. Van Ruysbroek Bellincks, p. Hennán W. Bisschop, p. Clemente F. Brunottel, p. Giuseppe C.B. Conrad, fr. Martín D. Brabers, p. Giovanni B. de Vries, p. Enrico D. Hams, p. Leonardo L.M. Janssen, fr. Giuseppe A. Laureys, p. Bernardo Aquilino Longo, p. Giacomo J.V. Moureau, p. Gerardo S. Nieuwkamp, fr. Giuseppe L. Paps, p. Amoldo W. Schouenberg, fr. Guglielmo A. Schouenberg, p. Giovanni L. Slenter, p. Francesco T.M. ten Bosch, p. Giuseppe J. Tegels, p. Giovanni I. Trausch, p. Giuseppe van den Biggelaar, p. Christian J.B. Vandale, p. Gerolamo I. Vanderbeek, p. Enrico B. van der Vegt, p. Enrico Julián E. Verbene, p. Guglielmo P. Vranken.

Senza contare tutti quei confratelli che hanno dato la loro vita nella loro missione, come i 3 SCJ francesi uccisi in Cameroun nell’anno 1959.

Potremmo inoltre considerare della Famiglia dehoniana anche la Beata Anwarite Nangapeta (1964), suora congolese della Sacra Famiglia, congregazione fondata dal vescovo dehoniano mons. Camillo Verfaillie nel 1937. Questa beata si formò nel cammino dell’oblazione dehoniana sotto la direzione spirituale del martire mons. J. A. Wittebols scj.