DOSSIER CENTRALE

IL CARISMA NELLA VITA RELIGIOSA

Il “proprium” del carisma dell’Istituto
nelle dimensioni personali e comunitarie

Maria Grazia Bianco, msscs

Premessa

Parto dal cercare di guardare me oggi nella vita religiosa, la consapevolezza di tante vite ‘date’, le persone che conosco dentro e fuori della vita religiosa, le situazioni che conosco. Porto con me nella riflessione i documenti che hanno illuminato il percorso della vita religiosa in questi decenni, conciliari e post-conciliari, sinodali e post-sinodali; porto e ho portato in me particolarmente la preghiera e la liturgia di queste settimane pasquali. Porto con me una sorta di coinvolta riflessione comunitaria, con sorelle della mia comunità ed età e consorelle in cammino di formazione iniziale. La mia riflessione si muove anche nel contesto della riforma universitaria dove vorrei riuscire a parlare e a vivere la solidarietà in luogo della competitività e per fare questo occorre un requisito di fondo: saper accettare il proprio ruolo e il proprio luogo. Un dialogo che si è pian piano esteso molto.

Vorrei non tanto teorizzare quanto piuttosto stimolare me e voi per guardare nella ricchezza dinamica che la vita religiosa racchiude e propone, per scoprirne aspetti e possibilità di vita e di risorse, per mantenere alla nostra persona, e alla persona dei nostri Istituti/le nostre Famiglie, la capacità di continuare a godere e a stupirci delle “belle opere che il Signore ha fatto per noi”, per tenere sveglio il senso vero esigente e concreto dell’amore inventivo che non va avanti per forza di inerzia nell’abitudine/i, ma esprime i mille aspetti del volto di un carisma. Vorrei pertanto cercare di penetrare con voi profondamente nella variegata e multiforme realtà della vita religiosa in sé e per sé, ma anche in ciascuno e per ciascuno di noi, per rivederla fresca e viva, come se la ricevessimo oggi, in questo giorno che è l’oggi della nostra chiamata, in questo hic et nunc (per usare un modo di esprimersi avviato nei primi secoli cristiani) in cui, ponendomi nelle mani e nel cuore di Dio, gioco la mia pienezza personale e ‘familiare’, il mio servizio agli altri, la mia partecipazione alla costruzione della chiesa, la mia responsabilità nella edificazione del mondo.

Una vita da re-inventare e re-impostare ogni giorno, ma  ogni giorno ‘partendo da 3’: a proposito di abitudini, una storia: una donna aveva l’abitudine di tagliare le parti finali dell’arrosto prima di metterlo nella teglia “perché - diceva - si fa così”. Le fu chiesto il perché: rispose che sua madre aveva fatto sempre in quel modo. E sua madre rispose che la nonna aveva sempre fatto così. È risultato alla fine che la bisnonna aveva sempre tagliato le parti finali perché aveva una teglia troppo piccola!

Vorrei richiamare dinanzi ai nostri occhi una verità estremamente semplice e piccola, tanto semplice e piccola che sembra inutile ricordarla: al momento del nostro nascere, al momento del nostro ‘sì’, al momento della morte, ciò che avviene, si compie e si è compiuto e si compirà con due soli protagonisti, Dio e io, proprio io da sola dinanzi a Lui, con Lui. Cosa piccola, ma che esprime la dimensione e la portata reale di tutto ciò che vorrei comunicarvi. Tutto ciò che riuscirò a dirvi chiama direttamente in causa ognuno/a di noi, anche quando il chiamato in causa è l’Istituto. Non si dà rapporto con Dio in cui coinvolgo tutta la mia vita e tutte le sue dimensioni senza che questo abbia una dimensione personalizzata in cui tutto è nelle mani di Dio e nelle mie mani. Non sto parlando di individualismo, sto parlando, invece, di una realtà esistenziale e quotidiana in cui ci può essere una famiglia religiosa perché ci sono altre persone, nei secoli e nello spazio geografico, che sulla strada di Fondatori/trici hanno accolto una chiamata cui la loro persona dà ricchezza e pienezza di vitalità, sfumature che fanno risaltare la bellezza comune e generale. 

La nostra VR si pone, oggi, in una società efficiente, competitiva, di successo, di facciata, di arrivismo, di fraternità “superficiale e di convenienza”; è una società di grande progresso, di macchinari raffinatissimi e rapidissimi che risolvono problemi ma se si inceppano lasciano la vita paralizzata; è una società in cui la solidarietà è divenuta consapevolezza sociale, ma è anche una società di ripiegamento nazionalista, religioso o culturale, di ripiegamento su di sé e di interesse a sé; è una società di solitudine, di qualità della vita, di ecologismo, di comunicazione, di pubblicità; è una società di grandi elogi del cosmopolitismo, della pluralità delle culture, della mescolanza di voci: è la nostra società, quella in cui ci muoviamo giorno per giorno, momento per momento, quella di cui denunciamo pericoli e carenze. Nel denunciarli, ci riteniamo ‘saggi’ e capaci di lucidità di fronte ad essi, quindi ci pare di esserne esenti. Sarà davvero proprio così? Cosa dire a questa società? Cosa dare? Ricordo ad alta voce VC 20: “Primo compito della vita consacrata è rendere visibili le meraviglie che Dio opera nella fragile umanità delle persone chiamate. Più che con le parole esse testimoniano tali meraviglie con il linguaggio eloquente di un’esistenza trasfigurata, capace di sorprendere il mondo” (.) la vita consacrata diviene una delle tracce concrete che la Trinità lascia nella storia, perché gli uomini possano avvertire il fascino e la nostalgia della bellezza divina”.

Devo anche premettere che ha sempre avuto su di me un fascino specialissimo il profumo del ‘primo sì’. Vorrei perciò aiutare me stessa a mantenere la ‘freschezza’ e la ‘vitalità’ dell’inizio, a tornare ad essa. Mi hanno fatto molto riflettere solo pochi giorni fa le domande emerse dal dialogo con una universitaria ventenne alle sue prime esperienze di tirocinio: dove vanno a finire le idealità della giovinezza quando si arriva a momenti di assestamento nella vita di una persona? dove sono finite le idealità del ‘68? Le domande della studentessa, giovane e laica, mi si sono tradotte in

domande più vicine al mondo degli adulti, laici o religiosi è indifferente: dove si annida il borghesismo con cui facilmente si ha a che fare dopo avere avuto un posto di lavoro che potrebbe in qualche modo essere stabile e definitivo?  e, da dove nasce e dove si annida il borghesismo con cui facilmente si ha a che fare dopo la professione perpetua? È un fenomeno simile? ha la stessa attrice? quale? Davvero la vocazione - una qualsiasi vocazione - e la risposta ad essa, è realtà facilmente deteriorabile, logorabile? Perché? Che consapevolezza ne ho e come la tratto?

Dunque, una riflessione insieme con voi fatta da me a voce alta sullo sventagliarsi degli elementi che fanno la nostra vita quotidiana. Forse ciò che più mi provoca in questo tempo di Pasqua è il ritrovarsi dei primi discepoli di Gesù a diventare consapevoli, in proprio e in assenza del Maestro, della portata e delle conseguenze del loro ‘primo sì’.

Vi presento sin da ora i testi biblici di riferimento per questa mia riflessione con voi:

- Gv 10, 1-16:  unum;

- Mc 14, 3-9 (Lc 7, 36-50; Mt 26, 6-13; Gv 12, 1-8) lasciate che  questa donna faccia l’unzione inutile’: lasciateglielo fare questo spreco, è uno spreco di amore;

- Gv 21, 20-22: Signore, e lui? che ti importa di ciò che chiedo per lui? tu, seguimi vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito: 1Cor 12,4.

Da questi testi sono uscite, per la mia preghiera, per la verifica della mia  coscienza (quanta attenzione e quanta ecologia interiore occorrono per passare da quella che facilmente definiamo ‘retta coscienza’ - ed è soggettiva - ad una coscienza oggettiva e vera!), ed anche che per il

rinnovarsi del mio impegno alcune parole chiave che sono anche parole-luce e parole-forza. Eccole: cristofania (VC ci ha fatto entrare in familiarità con il termine); cristofania come testimoniare non solo che siamo di Cristo, ma che “siete diventati Cristo” (VC 109): cristofania/specchio gratuità

legami di amore.

Ed insieme l’icona della unzione di Betania

Da questi elementi (cristofania e gratuità) farei scaturire lo stile di risposta: la vita personale, la vita di comunione, la caratterizzazione apostolica. Sotto la guida e l’operare dello Spirito Santo, nella

maniera più variegata e perciò più personalizzata che si possa immaginare. Proprio alcune espressioni di Basilio di Cesarea (Bas. De Spir. S. 22-23) sullo Spirito Santo offrono una considerazione importante e utilissima per noi: “inaccessibile per natura, si può accedere a Lui per mezzo della bontà; mentre tutto riempie con la sua potenza, si comunica solo a coloro che ne sono degni, distribuendo la sua forza operativa non secondo un metro unico, ma in proporzione alla fede”. L’intervenire dello Spirito negli esseri umani non si compie in maniera massiccia e generalizzata, egli agisce in base a ciò che ognuno può accogliere. Come avviene per la luce che ognuno percepisce in base al proprio apparato ottico, in maniera diversa; come avviene per i sapori, come avviene per la bellezza.

Mi fermerò sui vari argomenti esplicitati dal titolo assegnatomi, evitando di dare per scontato ciò che a volte riteniamo, a torto, tale.

1. Vocazione

A fondamento della vita di ogni nostra persona, come a fondamento della espressione dei voti da parte di ciascuno di noi c’è un intervento di Dio che precede qualsiasi nostro gesto, parola, movimento. Il nostro Dio, infatti, è il Dio che “per primo” fa: crea, ama, chiama, è il Dio che viene incontro, il Dio di una presenza che si fa incontro. Così, il nostro esistere è illuminato e come chiamato a diventare “incontro”. E niente come incontrare qualcuno ha connotazioni fortemente personali e uniche. Provate a pensare ai gesti dell’incontrare qualcuno, alle parole che si dicono o non si dicono, agli sguardi, a ciò che si pensa, a come ci si prepara a qualsiasi incontro, a come sono differenziati i nostri incontri, a ciò che ognuno di essi evoca in noi, a ciò che ci procurano gli incontri inattesi, quelli desiderati e quelli non desiderati, quelli semplici e quelli difficili; pensate anche alle tipologie e alle modalità degli incontri: di persona, per telefono, per lettera, per messaggi.

L’inizio di ognuno di noi è segnato da una chiamata unica e molteplice: chiamati all’esistere, al credere, all’accogliere l’Amore. Di questa ultima, speciale vocazione, ragiono con voi o, meglio, cerco di ragionare con il Signore dell’Amore, con il Signore che è Amore, e con voi. Una considerazione di fondo: sono stato scelto e la mia scelta è una risposta, libera e volontaria, alla scelta di Qualcuno che mi precedeva e continua a scegliermi e a chiedermi di rispondere alla sua chiamata. “Dopo avere scelto una volta, bisogna scegliere ogni momento” (Liebert, poeta polacco).

“La vocazione che Dio dona è legata al suo amore personale per ogni e ciascun religioso” (Giovanni Paolo II, Lettera ai vescovi degli USA, 1983, 1). Si tratta di avere consapevolezza di essere, ognuno e ognuna, voluti e amati da Dio istante per istante. È il poter arrivare a dire: “qui c’eri Tu e io non lo sapevo”.

Vocazione come risposta personale alla storia d’amore che Dio vuole avere con noi: come ciascuno è unico e irripetibile, così è unica, irripetibile e personale la nostra risposta. A Dio che ama, l’essere umano risponde con il ri-amare (ajntagapa~n è il verbo inventato da Clemente Alessandrino).

“Pensando al ‘sentire la chiamata”, quando la persona può avere la certezza? Bisogna cercare di non capire troppo e avere fede, leggere con l’intelligenza del cuore e credere fermamente a Lui. È tranquillità, è gioia? È rilassamento? È non pensare? Direi: è cominciare a fidarsi senza vedere e senza capire, avendo anche la sensazione talvolta che la vita religiosa oggi sia un assurdo. A nessuno mai dei religiosi è venuto questo dubbio, o non lo si vuole ammettere? La luce che si intravede una volta, forse l’unica (?), deve essere “lampada ai propri passi”, perché quella luce è Lui.

Ma come e dove? La ricchezza di carismi, di congregazioni, disorienta l’uomo che desidera andare a fondo nella ricerca della Verità, sofferta, amata,vissuta, incarnata. Dove? Tante sono le possibilità, si può stare anche ‘soli’, con la propria dipendenza economica e non solo, ma che senso può avere? L’essere parte di una comunità, meglio ancora di una famiglia può sembrare limitante, pesante? in realtà la diversità diventa ricchezza. L’essere 24 ore su 24 sotto ‘osservazione’ da parte delle sorelle spinge a essere veri, a dividere gli spazi, a farsi ‘piccoli’ per fare spazio agli altri che portano quel pezzetto di verità, quel pezzetto di Dio, parte che è Tutto, che potenzialmente lo ha in sé e noi lo possiamo riconoscere e di lì arrivare a leggere in noi”.

Vocazione è una chiamata personale che inserisce in una famiglia; compito del chiamato è anche quello di rendere proprio il carisma e la spiritualità dell’Istituto. Alla mia famiglia religiosa do anche il mio impegno/sforzo, impegno e forza positivi, di farla tutta mia. “L’appartenere, essere parte viva di una Famiglia che condivide ciò che si ‘sente’ nel cuore significa realizzare un pezzetto del Regno, ma bisogna essere attenti ai Segni dei tempi, non ‘imbalsamare’ la spinta dello Spirito, non far vivere il ‘fantasma’ del fondatore quasi temendo o avendo paura di. È un rischio che ‘soffoca’ secondo me lo ‘sbocciare’ di nuove adesioni alla chiamata, di risposte…”

Vita dell’individuo e vita della ‘famiglia’: due entità da far convivere e da non far entrare in conflitto; se queste due ‘voci’ vengono poste in competizione è una schizofrenia, la loro coesistenza diventa invece possibilità di una esperienza nuova, arricchente per entrambe, è terreno fertile di vita per piante nuove. Occorre prendere coscienza del proprio ruolo nella costruzione della famiglia che non è una realtà esistente in astratto, ma è questa famiglia concreta che si costruisce giorno per giorno. Bisogna conoscere l’Istituto/carisma; per conoscere bisogna sforzarsi, faticare, sperimentare, ecc. Non ci si sforza se non si ama, altrimenti, chi me lo fa fare? Amare chi? Dio, che mi ha chiamato a questa ‘avventura’. E gli altri che la condividono con me? Alla costruzione dell’edificio spirituale della Chiesa - la porzione di Chiesa che è ciascun Istituto - ognuno partecipa con la propria unicità e individualità messe al servizio di un bene comune; in questo modo individuo e comunità si arricchiscono e non entrano in conflitto.

La individualità e la diversità di ogni persona, quando sono accolte bene, diventano una ricchezza per la famiglia e fanno crescere tutte le persone della famiglia: occorre però un impegno forte e coraggioso da parte di ogni membro della famiglia.

“Rispondere alla vocazione non è cosa facile, perché è fare di se stessi un olocausto d’amore per dare a Dio tutta la gloria che il nostro essere può dargli” (L. Tincani).

Gv 10, 1-16: Gesù riunisce i suoi, ma non vuole un gregge di pecore “anonime” e “uguali”: le sue pecore riconoscono ognuna la sua voce, egli chiama ognuna per nome; ricordarsi del pastore sardo che chiama ogni pecora con il suo nome e non confonde le pecore tra loro; il pastore che è Gesù vuole un solo gregge e un solo pastore.

La strada della valorizzazione delle diversità: lo stesso carisma si può vivere in modi diversi. Occorre coraggio, ma anche buon senso, prudenza, anche buon gusto.

Si tratta di scegliere con chiarezza evangelica a chi rispondere, a chi consegnare il cuore, se a Dio o a mammona (e mammona ha nomi e volti diversi).

2. Consacrazione

La natura profonda della consacrazione riguarda la persona nella sua globalità: è il dono pieno di sé sotto ogni aspetto, puntando su Dio, il Suo amore, il Suo progetto nella storia dell’uomo. Un dono che presuppone e fonda il lasciarsi ‘conquistare’ da Dio sui passi, sull’esempio, di Gesù Cristo; un dono che nasce dall’essere discepoli e fonda l’essere discepoli. Mi fermerei a riflettere sull’essere discepoli di Gesù, questo è infatti seguire il suo esempio, questo è appartenerGli. Il senso e il perché dell’essere discepolo: si tratta di un’esperienza umana, perciò anche pre-cristiana, che il Cristo ha voluto fare propria, ha proposto e continua a proporre. E si tratta di una esperienza umana che si muove su almeno due fronti: il rapporto con il maestro di cui si vuole essere discepoli e il rapporto con ‘gli altri’, con-discepoli e non.

Essere discepolo inizia dall’ascolto personale, un ascolto da cui procede il mio sì. Ma essere discepolo implica consequenzialmente, immediatamente, il vivere in accoglienza anche degli ‘altri’, senza cedere ad atteggiamenti di rivendicazioni autoritarie. È la consapevole scoperta del fatto che, col nascere, tutti entriamo come alunni nella comune scuola che è il mondo, la vita stessa (cfr. Clem. AL. Quis div. 33,6). E, quando si è alla sequela del Cristo, l’ascolto è ascolto della parola di Dio e il sì è un sì al Dio della parola. Dall’ascolto -un ascolto che si compie porgendo non l’orecchio ma l’anima (Clem. Al. Str. VII 60,3), un ascolto “vivente”, un ascolto-consenso, un ascolto che dice familiarità tra Dio e l’uomo (l’uomo oaristes di Dio) - nasce un sì di tutto l’essere (con la totalità con cui la terra dice il suo sì al seme e, accogliendolo lo fa essere fonte di vita, S. Weil, Attesa di Dio, 99), un sì di cui non ci si ‘pente’ (cfr. Policarpo), un sì che mette in situazione di apertura agli altri, affini o diversi che siano. L’orecchio/l’attenzione/l’ascolto alla parola di Dio che interpella personalmente ciascuno.

Solo il credente, fatto ‘discepolo’, può gustare “la buona parola di Dio” (Eb 6,5) e rispondere all’invito ad una vita di speciale sequela evangelica.

Discepole di un Salvatore, di Gesù Cristo unico salvatore del mondo ieri, oggi e sempre: oggi, serve a qualcuno il Salvatore? Per me, che senso ha, concretamente, la presenza di un Salvatore che è unico e che è salvatore del mondo? Sono davvero sempre cosciente che è Lui e non io (non il mio Istituto/Famiglia religiosa) a salvare il mondo? Oggi forse conosciamo tante cose, tante realtà che ‘sostituiscono’ la salvezza e le fanno da surrogati: il benessere, la salute,  la qualità della vita, la convivialità, il successo, il potere, i soldi; ce ne possono essere altre ancora più sottili, ad esempio: la coscienza del dovere compiuto, la ritualità liturgica, la testimonianza, l’impegno affannante ed affannato nel lavoro anche apostolico.

Essere discepolo è una realtà dinamica, un continuo ‘andare’ dietro a Gesù che chiama a ‘stare con’ Lui, una realtà in continuo procedere (dall’indurimento del cuore alla tenerezza alla misericordia alla compassione; dall’avere occhi chiusi, incapaci di vedere ad occhi che segnalano il passaggio di Gesù - il racconto di Pasqua di A. Siniavskij). È anche, nello stesso tempo, un essere chiamati a continuamente leggere ed interpretare, intendere e trasmettere  ciò che viene consegnato, nella ricerca concreta e costante della ‘prossimità’ (a Dio, a sé, agli altri, alla vita stessa).

Unico ‘lavoro’: la consegna di sé, questo ‘arrendersi’/consegnarsi a Dio, un consegnarsi di cui Dio ci fa dono e, insieme, un consegnarsi attivo, ad occhi aperti, totale, il contrario del ‘potere’, nella sfida anche del non essere capiti, forse dell’essere guardati con sufficienza, come illusi, poveracci.

Il “consegnarsi” con un frequente riferimento al Pietro che cammina sulle acque, ma ad un certo punto ‘vede’ il vento e si impaurisce perciò affonda (cfr. Mt  14,30), come al Pietro dell’ultimo incontro con Gesù: un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti.

Una sequela di Gesù perché lì, in Lui, troviamo le risposte a domande quali: pace, giustizia, solidarietà, rispetto, riconoscimento, espansione della propria persona. E le Sue risposte (beati) dicono che questo essere beati è frutto proveniente da uno spostamento di asse, di punto di vista.

Questo essere discepoli parte dall’oggi e si snoda nelle pieghe concrete della storia quotidiana prolungandosi attraverso ogni oggi nel per-sempre (una realtà in crescita e in sviluppo organico e dinamico). “Interpellato personalmente dalla parola di Dio, il chiamato si pone al suo servizio. Inizia così una sequela, non priva di difficoltà e di prove, che conduce ad una crescente intimità con Dio e ad una disponibilità sempre più pronta alle esigenze della sua volontà” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale delle vocazioni 1997). La sequela si insinua nella mutevolezza dell’uomo, mutevolezza da intendere non solo come movimento verso il male, ma come movimento verso il bene, senza mai giungere all’estremo limite della perfezione (cfr. Greg. Nyss., Perf. christ. 212 Jaeger).

Discepoli-pescatori: cito da Savagnone (Evangelizzare nella post-modernità, 126) la risposta che un vecchio aveva dato alla domanda da lui stesso rivolta ad un missionario: perché gli apostoli sono dei

pescatori e non dei contadini. La risposta del vecchio è questa: “Forse perché i contadini piantano, coltivano e raccolgono sempre nello stesso posto, mentre un pescatore deve spostarsi sempre, per seguire i pesci ovunque essi vadano”.

Dio non ha bisogno della nostra consacrazione. Gesù chiede di seguirlo non perché ha bisogno del servizio degli uomini, ma per dare agli uomini la salvezza (cfr. Ireneo, Adv. haer. IV 13, 4-14), come in principio plasmò Adamo non perché avesse bisogno dell’uomo, ma per avere qualcuno

su cui effondere i suoi benefici. “Seguire il Salvatore è partecipare della salvezza, come seguire la luce significa essere circonfusi di chiarore. Chi è nella luce non è certo lui ad illuminare la luce e a farla risplendere, ma è la luce che rischiara lui e lo rende luminoso. Egli non dà nulla alla luce, ma da essa riceve il beneficio dello splendore e tutti gli altri vantaggi. Così è anche del servizio verso Dio: non apporta nulla a Dio, e d’altra parte Dio non ne ha bisogno; ma a coloro che lo servono e lo seguono egli dà la vita, l’incorruttibilità e la gloria eterna. Accorda i suoi benefici a coloro che lo seguono per il fatto che lo seguono, ma non ne trae alcuna utilità. Dio ricerca il servizio degli uomini per avere la possibilità, lui che è buono e misericordioso, di riversare i suoi benefici su quelli che perseverano nel suo servizio. Mentre Dio non ha bisogno di nulla, l’uomo ha bisogno

della comunione con Dio. La gloria dell’uomo consiste nel perseverare al servizio di Dio. E per questo il Signore diceva ai suoi discepoli: non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi (Gv 15,16), mostrando così che non erano loro a glorificarlo, seguendolo, ma che, per il fatto che seguivano il Figlio di Dio, erano glorificati da lui” (Ireneo, ibidem).

Consacrazione ecclesiale a Gesù Cristo mediante la professione dei consigli evangelici con voti pubblici; impegno personale da vivere con altri e per altri.

Il “proprium” del carisma di un Istituto/famiglia: è visibile? Con evidenza? ha bisogno di essere scartavetrato? di essere lucidato? Di essere comunicato? Che cosa ho capito quando sono entrata nella mia famiglia/istituto? Perché vi sono entrata? Perché vi sono rimasta? Per che cosa la ringrazio? Che cosa mi piace? Che cosa non mi piace? Che cosa do io al mio istituto?

Il cammino di scoperta del carisma dell’Istituto deve essere progressivo ed accompagnato dalla formazione alla libertà e alla dimenticanza di sé.

Indispensabile inserire qui il rapporto con il Fondatore/trice: anche questo rapporto deve essere un rapporto ‘personalizzato’: i fondatori appartengono al passato, al presente, al futuro; noi li penetriamo e li interpretiamo, li rendiamo vivi nell’oggi della vita, senza imbalsamarli.

3. I voti

Un mezzo per tradurre in concreti impegni di vita lo slancio di una consacrazione di appartenenza a Dio, il senso del nostro/mio personale vacare Deo: i tre voti che pronunciamo operano effettivamente questo? Ed io, consento loro di operare questo?

A monte, un amore che porta fino a dare la vita, nella gratuità e nella gioiosità dell’amare per amare. Solo questo può riempire la vita.

Castità: fare esperienza dell’amore di Cristo e amare con l’amore di Cristo; questo è il vero vacare Deo con totalità e nella pienezza, farsi vuoti per Dio, diventare “capaci” di Dio (per usare espressioni di Tommaso  d’Aquino); è la presenza a Dio nel santuario interiore di ognuno, realtà che i celibi/le vergini compiono in maniera totalizzante e che è un impegno per tutti, anche per i chiamati alla vita matrimoniale.

Povertà: è una delle forme del nostro vacare Deo essere vuoti per Dio; è scoprirsi ed essere vicini ai poveri, scoprirsi ed essere realmente poveri, persone che si mettono e stanno nelle mani di Dio.

Obbedienza: obaudio ascolto; un ascolto senza il quale la nostra vita diventa assurda ab-surdus; obbedienza è configurazione a Cristo nella più profonda espressione della sua unione con il Padre (faccio sempre le cose che gli sono gradite, Gv 8,29); obbedienza come esperienza della piena libertà cristiana; possedendo la pace nel cuore e la giustizia di Dio da cui sgorga la pace, possono essere autentici ministri della pace e della giustizia di Cristo per un mondo che ne ha bisogno (Giovanni Paolo II ai vescovi USA 1983, 3).

Tutto questo insieme fa - può fare - di ciascuno di noi persona di ‘rottura’ per vivere la com-passione (solidarietà).

“Recuperare semplicità e povertà autentiche. Lungo i secoli molte congregazioni religiose sono diventate ricche, un fatto che si può sempre giustificare con i nostri progetti ‘importanti’: ma la vita religiosa è stata più vitale e attraente quando noi siamo stati genuinamente poveri. Riscopriamo allora quella libertà” (p. Thimoty Radcliffe o.p. intervista del 2 febbraio 2000).

“La castità costituisce un riflesso dell’amore infinito che lega le tre Persone divine nella profondità misteriosa della vita trinitaria” (VC 21); cuori purificati che “nella fede vedono Dio”. La castità trova le sue radici nella solitudine in cui conosciamo intimamente il concreto amore di Dio per noi e veniamo liberati dalle costrizioni terrene.

L’obbedienza comunitaria ha bisogno di solitudine in cui ci si radica nella fedeltà del nostro Dio: questo clima rende possibile sperimentare la varietà dei compiti concreti, visti come manifestazioni diverse di un ministero comune; vivere in contatto con Dio consente di reagire in modo creativo alle emergenze concrete della giornata, senza lasciarci catturare da reazioni di panico.

I voti come modo di vivere un rapporto personale e irripetibile di discepolato dietro a  Gesù, discepolato in cui ognuno è se stesso e ha richieste attagliate a Lui da parte di questo Maestro che chiama ciascuno personalmente: Gv 21, 20-22: signore, e lui? che ti importa di ciò che chiedo per lui? tu, seguimi.

In sintesi: al centro la Persona e la persona (non i ruoli); per il posto e il valore della persona cfr. una pagina di L. Cerrito.

4. Vita fraterna

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.”(Gv 15, 12-17). “Quanto all’amore fraterno non c’è bisogno che ve ne scriva, perché voi stessi avete imparato da Dio ad amarvi scambievolmente. Ma noi vi esortiamo, fratelli, a farlo ancora di più” (1 Ts 4,9).

Fratelli/sorelle = essere membri/a di una famiglia, la famiglia di Dio, fratelli nel Signore (Fil 1,14). Fratelli/sorelle, cosa vuol dire? perché? in base a che cosa? impegni-doveri-promesse? curiosità e/o affetto/amore/ tolleranza/sopportazione/sincerità/doppiezza/falsità/simpatia/litigiosità/predominio/passività/prepotenza ecc. ecc.?

“Alcuni cristiani vivono in questo mondo intorno alla Parola di Dio con altri cristiani; altri sono soli, come semi-dispersi. Ma ciò che è loro negato nell’esperienza sensibile, essi lo afferrano nella fede. Così Giovanni nel suo esilio nell’isola di Patmos celebra con le sue comunità la liturgia celeste ‘in spirito, nel giorno del Signore’ (Ap 1,10) e ancora: “la comunione cristiana è tale per mezzo di Gesù Cristo e in Gesù Cristo; si tratti di un unico breve incontro o di una realtà quotidiana, apparteniamo gli uni agli altri solo per e in Gesù Cristo” (D. Bonhoeffer, Vita comune).

Colei/colui che mi si fa incontro, che dorme nella stanza accanto, che mangia con me, che prega accanto a me, che mi chiede di tacere perché lei/lui possa raccontare, non è semplicemente una persona che mi si fa incontro nella sua serietà, nel suo impegno, nelle sue necessità e esigenze, è una/o che Gesù ha redento, che ha chiamato, che ha voluto con me nella Famiglia in cui siamo stati accolti entrambi. È, dunque, una/o noto a Gesù, è un regalo di Lui per me. Anzi, prima ancora che ci conoscessimo, che ci trovassimo insieme Dio aveva già disposto il nostro essere insieme.

Comunità è il luogo dove avviene il quotidiano paziente passaggio dall’io al noi, dalla ricerca delle mie cose alla ricerca delle cose di Gesù, delle cose del Padre (cfr. Vita fraterna in comunità, 39): si tratta di un passaggio evangelico, segno di accoglienza del Cristo e del suo stile di vita, segno del mettere i piedi là dove Gesù ha lasciato le sue impronte. Solitudine per trovare la nostra identità comunitaria; nella solitudine infatti possiamo riconoscere come mettere i nostri talenti più personali a servizio di un compito comune. I talenti personali come via verso Dio, ma al modo di Dio.

Fraternità come dimensione trinitaria della nostra vita. Alcune conseguenze: profondo rispetto delle persone e dei valori di cui sono portatrici; sviluppo di relazioni interpersonali di amicizia nel sincero dialogo e nello scambio continuo, ma senza idealizzare fraternità e comunione; esercizio forte, bello, gioioso della fede (non banalizzare la fede e le relazioni comunitarie con l’assumere criteri mondani); consapevolezza che non i nostri sforzi creano l’unità ma Qualcuno che ci libera dalle costrizioni della paura e della rabbia; presenza e capacità di accoglienza del dolore, della sofferenza in qualunque modo essa si presenti: la luce speciale, che si trova accanto ai malati e ai poveri, e che noi non abbiamo (cfr. Piergiorgio Frassati).

“Nei gruppi si creano dinamiche non sempre positive, ci portiamo il nostro bagaglio, che troppo spesso è zavorra, è peso inutile. Eppure la comunità è quanto di più umano possa esistere, è briciola della Chiesa universale, eppure è l’appartenenza ad essa, il credere ad essa che tante volte ci fa sembrare folli agli occhi di qualcuno. Scrive Henry De Lubac: “È quanto più folle e quanto più scandaloso ancora, questo nostro credere ad una Chiesa in cui non soltanto il divino si offre a noi obbligatoriamente attraverso il troppo umano” (da intervista Cacciari e Silvestrelli - Corriere della Sera, 26 aprile 2001). La fraternità, la vita fraterna produce ‘ad extra’ atteggiamenti solidaristici tra persone diverse e crea le premesse di una nuova cultura della solidarietà, la vita fraterna diventa controcultura nei confronti della globalizzazione, è un “gettare i ponti tra”, è contributo di fede da dare in comunione tra i diversi carismi assieme ai laici. Penso che il consacrato impari a scoprire ed a vivere nella comunità la misericordia, e deve essere la testimonianza della misericordia, i laici credono a questo. Ma come viverla? Purificando i nostri sensi, controllando i “nostri istinti”, amando. Penso che i requisiti fondamentali per una vita fraterna siano: il dialogo continuo, la formazione umana, la sincerità, “l’abolizione della maschera”, un rapporto non di sudditi rispetto ai superiori, ma di libera obbedienza, un’obbedienza matura, consapevole, che fa forse soffrire talvolta, ma la maturazione anche del rapporto è frutto della sofferenza. La sofferenza è costruttiva se porta alla conoscenza della persona stessa che ne è soggetto, ma anche ad una scoperta del rapporto con l’altro.

È fondamentale la discrezione, il non criticare negativamente le azioni degli altri, il “non silurare”: questa è mancanza di maturità, forse di vera vocazione. Penso che quando si cominci un serio cammino di “abbandono” nelle mani di Dio la sofferenza del distacco da noi stessi è così profonda, che poi non rimanga più spazio per vedere  la “pagliuzza” negli altri, ma si guardi il cammino di liberazione dentro la propria persona, anzi i fratelli diventano un aiuto per “tirare fuori” ciò che “ingombra”. Si è arrivisti, egoisti, litigiosi, falsi, . si riconoscono tali difetti negli altri perché in potenza (o forse già in atto) li abbiamo dentro, e allora dobbiamo depurarci da questo. Chi si ostina a rimanere nelle proprie convinzioni non cresce, rimane ‘acerbo’. Sopporto l’altro? No, bisogna imparare ad amare. La stanchezza ci rende irascibili, non si sopportano le lentezze, i ritardi di comprensione, mentre crediamo di vedere ‘oltre’. La bellezza della comunicazione anche sulle piccole cose, sulle piccole incomprensioni dissolve i piccoli ‘nodi’ che potrebbero diventare difficoltà ben più grandi, potrebbero ‘sfociare’ in atteggiamenti di prepotenza che blocca, impaurisce il debole, getta i muri dell’incomunicabilità. La Famiglia  Religiosa diventa ‘spirito del proprio spirito’, parte integrante della persona, e ovunque il consacrato si trovi porta i fratelli nel cuore, nelle azioni, la sua missione è la missione della Famiglia, non lavora per se stesso, ma accetta i limiti  dei risultati come riconoscimento, perché l’operare diventa realizzazione della missione. È necessario lasciarsi percorrere dalle proprie debolezze, chiamarle per nome, parlarne ai superiori, perché il mettere in comune diventa conoscenza e crescita reciproca. Il fondamento dello stare insieme è Lui, lo crediamo, lo diciamo a Lui nella preghiera comunitaria, nell’Eucaristia. È necessario ancora partecipare alle attività della Famiglia dall’inizio della formazione, non vivere nella ‘cotonina’, nella bambagia, nell’ovatta, cioè nella protezione, ma essere consapevoli e partecipi, imparare a ‘servire’, non ad essere serviti.”

5. Preghiera

La preghiera non è una cosa scontata: bisogna imparare a pregare. La vita di orante si impara in comunità. Le nostre comunità devono diventare scuola di preghiera. Eppure, la preghiera è già dentro di noi come dono di Dio, come presenza in noi dello Spirito che in noi invoca il Padre. Certo, si tratta di ‘arrivare’ dentro di noi, di passare dall’io superficiale ed esteriore, all’io interiore (cfr. Agostino), al ‘cuore’, quell’io interiore/cuore che è tempio dello Spirito Santo, che è il luogo dove si trova la Trinità.

Solitudine per incontrare Dio: solitudine come direzione, la direzione indicata dal profeta Elia (1Re 19). Nella solitudine scopriamo innanzi tutto la nostra inquietudine, agitazione, ansia di risolvere subito, volontà di non lasciare nessuna cosa in sospeso, di avere peso. Vorremmo lasciare la solitudine, ma se perseveriamo con un po’ di pazienza e costringendoci a rimanere nella solitudine arriviamo a conoscere il Signore del nostro cuore, il Signore che ci fa conoscere chi veramente siamo.

Preghiera personale e preghiera in comunità/della comunità; essenziale è pregare insieme a tutta l’assemblea, dovunque sia il luogo, qualunque sia il tempo, della preghiera.

Quale tipo di preghiera? Una preghiera di tutto l’essere e di tutto il tempo (la preghiera della volontà ‘buona’, si potrebbe dire con Caterina da Siena). Quale ritmo di preghiera? Importante trovare il ritmo giusto: è come quando si cammina a lungo; trovato il buon ritmo si può andare avanti a lungo senza stancarsi. Sarà da cercare anche un ritmo fisico, psichico, temporale, interiore, un ritmo di ‘respiro’ (ognuno ha il ‘suo’ tipo e il suo ritmo di respiro fisico!). Una preghiera che riconosce la priorità di Dio: rimaniamo dinanzi a Lui improduttivi e inutili, senza nulla da mostrare, provare, affermare e lasciamo che Egli entri nel nostro vuoto.

Preghiera contemplativa: contemplatori del volto di Cristo per farlo risplendere luminoso nel nostro volto.

Scoprire, cercare l’Assoluto vero, l’unico Assoluto, non uno o qualche surrogato di esso. Chi rendo il mio Assoluto? Chi/cosa è l’Assoluto per me?

Vivere nel , nel pensiero e nelle azioni (tutte) ciò che si dice con la voce. La preghiera verbale non è sufficiente, è inadeguata alle nostre esigenze, come è inadeguata alle proposte di Dio (questo popolo dice: Signore, Signore, ma il suo cuore è lontano da me). Non solo chiedere qualcosa a Dio, ma ringraziare, lodare, benedire, adorare.

Pregare e agire vanno insieme: solo chi agisce bene può pregare bene. Pregare e com-patire vanno insieme. Dove non c’è compassione non c’è preghiera; la preghiera è destinata a rendere il cuore compassionevole, a rendere le azioni buone.

“Dobbiamo portare con noi il lino della Veronica (= l’immagine di Gesù deve rimanere sempre impressa nel nostro cuore)” (J.H. Newmann), ed anche: dobbiamo portare con noi l’unzione di Betania (= l’icona di Mc 14,3ss.)

6. Impegno apostolico

Personale? Comunitario? Interessi personali e interessi comunitari? “Ges0ù avrebbe potuto portare la croce da solo, se così avesse voluto; ma egli permette a Simone di aiutarlo per ricordarci che dobbiamo prendere parte alle sue sofferenze e collaborare alla sua opera” (J.H. Newmann).

Unico interesse servire Dio nei fratelli: in questo modo coincideranno i miei interessi e quelli della comunità. Ciò significa che dinanzi alle divergenze l’individuo e la comunità dovranno chiedersi quale è il fine ultimo e agire di conseguenza. L’individuo eserciterà la propria missione non come cosa propria (sua proprietà) e la comunità non dovrà far prevalere le sue esigenze e vedute su quelle del Vangelo.

Rapporto tra il fare e l’essere; il carisma e opere.

Una vita religiosa che deve incontrare la gente, tessere rapporti con la gente e tra la gente; una vita religiosa che non può stare a guardare dall’alto estraniandosi.

7. Amministrazione dei beni

In questa situazione generale di impoverimento (rimando all’intervento di C. Maccise sulla povertà), di povertà anche di ritorno eppure di consumismo, la vita religiosa continua ad avere molti beni. Sembra, talvolta, che solo i religiosi non risentano -o risentano molto poco- della limitazione di beni, di denaro. Talvolta pare che con il denaro si fa tutto: si comperano cose, anche esami; si possono anche comperare vocazioni?

Ho una domanda molto limitata: quali beni amministriamo? Per chi li amministriamo? per farne cosa? è possibile esserne consapevoli e partecipi? Come? Per quale tenore di vita? Un tenore uniforme in ognuna delle nostre comunità?

8. Servizio di governo

Governo e obbedienza da collegare? Perché? Dialogo e decisione: in rapporto? di che tipo?

Un servizio di governo = un esercizio dell’autorità adattato al tempo attuale che ci garantisca la realizzazione della volontà salvifica di Dio in condizioni di libertà e di rispetto. Quindi un’autorità-servizio guida, non un’autorità-presenza chioccia, autorità guida cui corrisponde un’obbedienza libera e solidale.

Sarà indispensabile, da parte di chi esercita il servizio di governo, una attenzione vera al vangelo, a tutto il vangelo. Questo può sembrare facile perché tutti abbiamo sulle labbra la dichiarazione di fedeltà al Vangelo, ma in realtà questo va cercato e perseguito con grande attenzione, con occhi molto aperti, con la luce e la guida dello Spirito Santo che ci faccia conoscere le implicanze esistenziali e concrete del Vangelo, che ci faccia capire la lingua che il Vangelo parla oggi. Che al singolo religioso venga richiesta e proposta la fedeltà al Vangelo è garanzia di ricerca della volontà di Dio, è davvero aiutare a conoscere la volontà di Dio su una persona ed entrarvi in contatto. La vita religiosa trova il suo senso più profondo nella scelta di obbedire a Dio; ora, l’obbedire a Dio si esplica nell’obbedire alla regola, come via di fedeltà al vangelo; questo deve procurare e garantire il servizio dell’autorità. Questa deve essere la sua unica pre-occupazione, e non deve essere alterata o coperta da altre preoccupazioni più urgenti e immediate (cfr. intervento del p. J. M. Arnaiz, su Autorità e obbedienza, pubblicato in “Testimoni” del 30 marzo 2001, pp. 21-28).

Traggo un breve passo da una intervista al p. Radcliffe o.p.(intervista del 2 febbraio 2000).  Alla domanda del giornalista: “Veniamo da un periodo segnato in Occidente da una generale crisi vocazionale. Come se ne esce, e come si avvicinano i giovani alla vita religiosa?”, egli ha così risposto: “Dobbiamo dare ai giovani la libertà di rispondere alle nuove sfide. I giovani non vanno mai usati per “riempire i buchi” o mantenere il passato. Nessuno entrerà in una congregazione solo per aiutarla a sopravvivere: gli ordini religiosi non hanno a che fare con la sopravvivenza ma con la morte e la risurrezione. Non importa se nel futuro ci saranno meno comunità o se una congregazione vedrà dimezzarsi la sua consistenza attuale. Ciò che conta è che le comunità siano vive e siano i semi del futuro. Preferisco tre comunità vive a dieci che combattono per sopravvivere”. E, proseguendo, alla domanda: “Nascono ancora tra le mura dei conventi i Tommaso d’Aquino, i Francesco d’Assisi o le Caterina da Siena?” Lo stesso Padre risponde: “Dio ha creato solo un san Tommaso, un san Francesco e una santa Caterina. Lui non clona! Piuttosto, ci sorprende dandoci per ogni generazione fratelli e sorelle che sono unici e hanno la loro propria via di santità. Quando l’ordine domenicano fu fondato, non avremmo mai immaginato che un giorno ci sarebbe stato un Bartolomeo de Las Casas a combattere per i diritti degli indios, o un Beato Angelico a pregare attraverso la pittura.

La sfida è nel saper accogliere i santi inattesi che sono nascosti nelle nostre comunità, e che potrebbero sorprenderci. E il volto della santità del Duemila è quello che mostra la gloria e la bellezza del Dio vivente in mezzo a noi. In questo mondo sempre più violento, dobbiamo avere

coraggio se vogliamo essere un segno di Dio. In alcune parti del mondo i religiosi affrontano sempre più il rischio del martirio. A volte abbiamo solo bisogno del coraggio di affrontare l’incomprensione e la critica, o dell’umiltà di non temere di tentare qualcosa e di fallire. Abbiamo bisogno del santo coraggio di chi ha posto la sua fiducia in Dio”.

Un verbo adatto per chi esercita il servizio del governo. In questo momento in cui la parola d’ordine sembra essere ‘discernimento’, proporrei di utilizzare un termine più antico, che traggo dal Vangelo, il verbo confero. Il suo vero significato ben si adatta alla vita interiore della persona, al suo essere discepola e apostola, ma anche ben si adatta al senso e allo stile del servizio di governo. Confero = porre insieme tutte le parole di Dio, quelle scritte e quelle pronunciate da Dio attraverso il vivere dell’esistenza e delle persone nell’esistenza. Il servizio dell’autorità si radica sul porre insieme

tutte queste parole, come Maria, porle in modo che la luce passi dall’una all’altra di esse e consenta di ‘cogliere’ ciò che Dio vuole per ognuna delle persone, come per l’Istituto nel suo insieme; coglierlo per compierlo.

9. Apertura ai laici e alla Chiesa universale e locale

L’argomento in realtà non è soltanto un argomento concreto di apertura ad alcune specifiche persone o categorie di persone (quelle delle quali non possiamo fare a meno, quindi un’apertura cui potremmo sentirci o essere costretti), ma si tratta piuttosto di un atteggiamento interiore che ci riguarda in tutto il nostro vivere, a partire dal vivere al di dentro delle nostre Famiglie religiose.

Necessità/costrizione/sopportazione? Collaborare? Cosa implica e cosa significa?

Rapporto tra culture, mentalità: mi servo di un concetto filosofico-letterario, umano, che ho trovato in alcune pagine di un autore bulgaro trapiantato in Francia (Tzvetan Todorov, L’uomo spaesato)

che riflettendo sulla sua esperienza interiore in occasione di un suo breve ritorno in Bulgaria, esprime la sua situazione con il concetto di transculturazione, ossia l’acquisizione di un nuovo codice senza la perdita del precedente (leggo un breve paragrafo del libro, p. 13 e fine di p. 14: la transculturazione serve allo spaesamento che giova sia agli autoctoni sia agli estranei; i vari paesi possono avere in comune per la persona una cosa: in ognuno, essa ha degli amici)

Consacrati = perfetti? Coloro che devono solo dare e non devono ricevere nulla dagli altri esseri umani? La comunicazione non presuppone uguaglianza, ma la volontà di essere con l’altro e per l’altro, a partire dall’iniziale consonanza di due diversi per giungere a una forma nuova di vita in cui nessuno dei due diventa una fotocopia dell’altro, ma entrambi acquisiscono un nuovo modo di essere e di vivere grazie all’influsso esercitato nella propria vita dall’altro. Il dialogo non significa che si elimini l’essere distinti, ma richiede la pazienza di capire la differenza, ascoltarla, vivere la differenza considerata come una ricchezza. I consacrati, come tutti gli altri esseri umani, sono persone che stanno facendo un cammino di perfezione, con tutte le difficoltà derivanti dalla natura ferita dal peccato di origine, dalla vita in sé e per sé, da un contesto culturale in cui si può tranquillamente fare a meno di Dio. L’opera della salvezza non è affidata in esclusiva ai soli “consacrati” per cui gli altri sono i destinatari del loro lavoro apostolico: chi salva è Dio e chi coopera con Dio è ciascuno di noi, con diversità di ministeri e di operatività, in uno scambio di reciprocità.

Interiorità e circolarità di rapporti comunionali e vitali tra: persone, famiglie religiose, religiosi e laici, religiosi e chiesa locale ecc....

10. Una sequela di Gesù con luce propria

Gesù cui vogliamo andare dietro, i cui passi vogliamo tenere anche noi,e ognuno i suoi passi, quelli che nascono dal suo amore, dalle sue energie, dalle sue debolezze, dalla sua creatività, dalla sua fantasia, eppure ognuno di noi si porta dietro il peso di se stesso.

C’è una domanda di fondo sempre attuale: come passare dal ‘sapere’ al ‘vivere’? Quasi quasi, per alleggerire la cosa, siamo tentate di pensare che si tratti solo di una difficoltà del ‘passaggio’: dalla prima formazione alla vita di professe di voti perpetui... Ma, è proprio solo così? Difficoltà e consapevolezza del problema: è il nostro proprio problema personale di fondo. È il chiederci: come mai io non sono quella discepola di Gesù che Lo ama primariamenTe e totalmente e sempre, e con coerenza? Una distinzione di fondo è necessaria:

* ci possono essere elementi/situazioni, pur negative, ma compatibili con l’essere discepola di Cristo, compatibili con la ‘santità’ (c’è qualcosa che va riconosciuto e accettato con pace perché non toglie nulla a Dio agli altri e a me stessa, qualcosa per cui è utile richiamare alla mente le parole che sono rivolte a Paolo: “ti basti la mia grazia”);

* ci possono essere incoerenze che bloccano la crescita della persona e ne impediscono il cammino.

La mia propria sequela di Gesù cosa significa? su cosa si fonda? Cosa offre? cosa chiede? di cosa non si può fare a meno?

Qualche spunto provocatorio per una sequela di Gesù con luce propria:

lo studio: non si può capire bene il senso della luce propria da dare alla sequela di Gesù senza un impegno accurato e continuato allo studio. Quanto è facile fraintendere lo studio e usarlo come evasione, come gioiello per essere apprezzati o mettersi in mostra, come oggetto inutile e sconosciuto, come...

La lealtà di ciascuna persona che chiede a se stessa qualcosa, che non si lascia vivere nella mediocrità del farsi una nicchia confortevole e piacevole, anche comoda, nicchia di autoreferenzialità e di posta al margine di chi non si allinea a questa forma di mediocrità e persegue una sequela di Gesù diversa. La fiducia per ciò che qualcuno vede come caratteristico e irrinunciabile nella sua sequela di Gesù: la fiducia come base di partenza per evitare la omologazione che fa comodo.

“Il consacrato del domani dovrà essere saldamente legato alla croce di Gesù e con le orecchie ben aperte per dire ad ogni cultura con la sua esistenza che non c’è nulla di più saggio per l’uomo che lasciarsi illuminare dalla luce di Cristo.” Così si esprime una persona all’inizio della sua risposta a Gesù, ma allo stesso modo parlavano i Padri della Chiesa (penso a Clemente Alessandrino che presenta Ulisse che vuole scampare al pericolo delle Sirene, ma vuole anche udirle cantare e si fa legare all’albero della nave/croce).

L’incontro si fa vita, una vita basata sull’amore e sul dono di sé nella gratuità è elemento imprescindibile e irrinunciabile: la gratuità nell’icona dell’unzione di Betania: Mc 14, 3-9 (Lc 7, 36-50; Mt 26, 6-13; Gv 12, 1-8) lasciate che  faccia l’unzione ‘inutile’.

Una vita riempita sostenuta e alimentata dall’amore di Gesù, in una profonda personale quotidiana esistenziale relazione con Lui.

Quale stile di vita scaturisce da questo:

- stile di profonda vita interiore;

- stile di chi non si è ‘accomodato’ ed è in cammino di formazione permanente;

- stile di chi “sta” nelle cose del Signore (il Gesù dodicenne di Lc 2,49 che si occupa delle cose del Padre = eij~nai = stare);

- stile di chi si accorge che Dio opera meraviglie nella fragile umanità del chiamato/a;

- stile di solitudine in cui rendiamo testimonianza ad un amore che trascende le nostre relazioni interpersonali e le costituisce;

- stile di accoglienza: lo stile del “sì nuziale” per cui “Dio depone in noi un piccolo seme, il seme appunto che è l’incontro, e se ne và. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare, e a noi nemmeno, se non attendere” (S. Weil, Attesa di Dio, Rusconi, p. 92);

- stile di iniziativa;

- stile di gratuità;

- stile del lasciarsi fare pane, il pane dell’Eucarestia, il pane della comunione, del dono;

- stile di attenzione al mistero;

- stile di ascolto (imparare e praticare l’ascolto, anche l’ascolto dell’esprimersi non verbale!);

- stile di parrhesia;

- stile di vita ordinata spaziosa, a servizio, sana, pensosa, semplice, sobria, ma non mediocre nella solitudine (nella solitudine impariamo a dipendere da Dio) trasfigurata, perciò capace di sorprendere il mondo che lascia trasparire il fascino e la nostalgia della bellezza divina nella libertà (dalla paura, dalla rabbia, dall’individualismo non controllato che ottenebra la vista), nella gioia (che proviene dall’essere con il Signore), nella com-passione nella fame di spiritualità (VC 103: ricerca del sacro e nostalgia di Dio).

Conclusioni

Gesù chiama oggi: chi chiama? Come chiama? A cosa chiama?

Dio chiama uno ad uno e mette insieme (voca e con-voca) le persone per fare la stessa realtà che Lui costituisce con il Padre, l’unum (Gv 10,1-16). In tale unum ogni essere umano ha una sua propria identità, fisionomia, compito: questo unum non ha spazio per i clonati. Il popolo di Dio, il gregge di Gesù, la vite di cui è vignaiolo il Padre, sono un insieme di esseri distinti, per ognuno dei quali c’è una storia di amore, l’Amore di Dio, che si attaglia a quella determinata persona (Gv 21, 20-22). A Dio che ama, l’essere umano risponde con l’amore che rende dono.

Il mercoledì della Settimana Santa di quest’anno, quindi all’inizio del triduo pasquale, al centro della basilica di S. Maria Novella a Firenze, sono stati nuovamente posti, dopo i lavori di restauro, il Crocifisso di Giotto e l’affresco di Masaccio che rappresenta la Trinità. Sono potuta andare a goderli e ho conosciuto le parole di commento con cui la comunità domenicana custode di quella basilica ha accolto le due opere riflettendo sul fatto che “poter ammirare nuovamente due opere che hanno al centro il Cristo crocifisso è motivo per rimettere veramente al centro della considerazione delle comunità cristiane la presenza di Cristo e di Cristo Crocifisso, fonte di unità e di pace. È lui che rivela l’amore di Dio comunione, Trinità, così come l’affresco di Masaccio raffigura mirabilmente ed è Lui che ha percorso la via a cui ogni donna e uomo è chiamato, l’apertura della vita al dono di sé, verso Dio e verso gli altri, come il crocifisso di Giotto fa risaltare. (...) Poter ammirare al centro di questa Chiesa, alla vigilia del triduo pasquale, queste due immagini, opere d’arte che portano in sé un profondo messaggio di spiritualità e di teologia, suscita due motivi di riflessione tra tanti altri. Un primo motivo è la centralità di Cristo, della sua testimonianza, della sua vita e della sua morte nella vita della comunità credente. Paolo presentandosi alla comunità di Corinto così scriveva: “Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1Cor 2,2-5).

E questo è, e dovrebbe essere, l’ideale di ogni predicazione evangelica. Un secondo motivo è quello della fraternità, messaggio comunicato da queste opere: Cristo con le braccia aperte e il costato trafitto, che nella sua morte dona la vita e la Trinità che accoglie e raduna coloro che stanno sotto la croce è messaggio di una accoglienza che si allarga ad ogni spazio e tempo umano: è allargamento della prospettiva masaccesca non solo in una dimensione spaziale ma anche in quella temporale. C’è un messaggio universale che da queste opere promana: l’annuncio del vangelo, che ha ispirato Giotto e Masaccio è proposta di dialogo e via di incontro, di fraternità e di comunione tra le persone. Da qui. l’augurio che questi capolavori, per le generazioni future a cui vengono consegnati, siano motivo di itinerari di solidarietà con ogni sofferenza umana e di dialogo tra le culture ed i popoli” (Alessandro Cortesi op - priore del Convento di S. Maria Novella - 11 aprile 2001).

Una preghiera del Newmann: “O mio Signore Gesù, fa’ che la tua croce sia efficace. Fa’ che sia efficace per me più di tutti, per evitare che io abbia tutto in abbondanza senza portare nessun frutto a perfezione”. “Fa’ o Gesù che ci affidiamo a te, attendendo che tu voglia disporre per noi una sorte simile alla tua”.

Ed anche l’invito alla speranza: “non scoraggiatevi. La verità della vita consiste nella speranza sicura che il sole finirà col dissipare tutte le nuvole” (Teilhard de Chardin).

Maria, la persona che  ci insegna ad essere vigilanti (silenzio del cuore) per cogliere i “segni” del passaggio di Dio (Dio chiede di venire accolto con tutto quello che fa nella nostra vita) e scoprire che Lui chiama non per chiederci “qualcosa” ma per chiederci se siamo disponibili a ri-offrirgli la disponibilità della nostra persona.  

Sintesi

Ho voluto parlare di persone che vivono una vita che non sta al centro degli eventi, non è sensazionale e non lascia tracce grandiose e vistose ad occhi scoperti: la vita dei clown, coloro che appaiono tra una grande esibizione ed un’altra, si muovono goffamente, cadono e ci fanno sorridere nuovamente, dopo la tensione creata dagli eroi (i trapezisti, gli acrobati, i domatori). Dinanzi ai clown reagiamo con simpatia non con ammirazione, con comprensione non con stupore, con un sorriso non con la tensione (cfr. H.J.M. Nouwen, I clown di Dio).

* Dio chiama personalmente e rende personalmente atti ad una risposta del tutto originale/personale: una storia di incontro.

* Dei tanti vuole fare una unità, non una uniformità: un popolo che Egli forma.

* A Dio che ama si risponde amando: l’incontro diventa vita, una esistenza trasfigurata.

* Ad ognuno Dio dona un carisma che rende famiglia, ma ciascuna famiglia è formata da tante singole personalità: ognuna è indispensabile.

* Stile di risposta e di individualità, uno stile di amore nella gratuità: l’unzione di Betania, il crocifisso di Giotto e la Trinità di Masaccio - avvertire il fascino e la nostalgia della bellezza divina.