DALLE NOSTRE MISSIONI
CONGO

INTERVISTA A P. DINO RUARO

Evaristo Martínez de Alegría, scj

1. Da molti anni, e in diversi ruoli e ministeri, lei vive nella Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire) come missionario. Oggi, in qualità di Superiore Provinciale, dirige il lavoro missionario e l’animazione religiosa di quella Provincia.

Negli anni passati si è parlato molto del Congo, sprofondato in guerre e nel conseguente disastro sociale, economico e politico. Oggi, altre guerre e altri fronti di battaglia ci fanno dimenticare la situazione del Congo, la quale, nonostante la noncuranza e il silenzio di tanti, conserva sempre tutta la sua gravità.

Potrebbe inquadrarci la realtà che la Provincia Zairese vive in questo momento, perché possiamo capire meglio questa stessa realtà e la risposta che ci si attende dalla Chiesa e da noi SCJ?

Il Congo è un paese in guerra. Iniziata nel 1997, all’est, nell’intento di far cadere il regime di Mobutu, questa guerra ha trascinato il Congo in una situazione dolorosa e inestricabile. Il nostro paese si trova diviso in tre zone di influenza, fra le quali non solo non vi sono comunicazioni di sorta, ma addirittura si registrano frequenti scontri armati. Sono sei le nazioni straniere che, nonostante quanto firmato nei patti di Lusaka, mantengono nel Congo le loro truppe: Rwanda, Uganda, Burundi, Angola, Zimbabwe, Namibia. Ad esse vanno aggiunti numerosi gruppi armati, che aumentano lo scompiglio e l’insicurezza fra una popolazione inerme. Lo scorso anno, in maggio e in giugno, a Kisangani fummo spettatori e vittime di una sanguinosa guerra che Rwanda e Uganda combatterono fra loro, in casa nostra. La guerra non concluse nulla, non risolse nessun problema. Lasciò soltanto distruzione e morte fra una popolazione pacifica e indifesa. La gente non vuole la guerra, la gente non vuole l’occupazione di eserciti stranieri; essa chiede solo di poter vivere e lavorare in pace e riconquistare una dignità che è stata loro tolta. Troppo spesso parole come povertà, miseria, oppressione, morte, diventano parole che non fanno più effetto e non suscitano più emozione. Ciononostante è opportuno ricordare che dall’inizio della guerra del Congo, si stimano a 2.500.000 le persone uccise, e più di 2.000.000 sono ancor oggi i rifugiati di guerra. Le ingiustizie, le intimidazioni, le spoliazioni dell’amministrazione e soprattutto dei militari seminano fra la popolazione miseria, angoscia, e insicurezza.

A questa sofferenza, si aggiunge la frustrazione di un sentimento nazionale ferito e umiliato. Ferito a causa di un’occupazione straniera prepotente; ferito a causa della spoliazione sistematica delle ricchezze nazionali, che - ironia della sorte - servono per sostenere una guerra che semina nel loro paese paura e morte; ferito a causa di alcuni figli del paese, che appaiono come venduti allo straniero e collaborano con lui, dando una veste di legalità a quella che invece non è che un’occupazione ingiusta; ferito dalla constatazione delle divisioni interne che affliggono il paese e impediscono di costituire quella coesione e quella intesa che sole possono portare ad una soluzione duratura dei problemi del paese. Ma bisogna dire che la troppa sofferenza e la lotta per la sopravvivenza quotidiana, spesso rendono più difficile per la gente trovare il tempo e la lucidità che permettano una chiara presa di coscienza della propria situazione.

In questo contesto, il primo ruolo della chiesa è quello di aiutare i propri figli a non disperare, a non rassegnarsi, a continuare a credere in Dio, e a rispettare il fratello, chiunque esso sia. Presenti in mezzo alla nostra gente come fratelli che credono e come pastori, ci sforziamo di aiutarli a prendere coscienza della loro dignità, come persone, come comunità, come popolo. Il fatto di essere rimasti accanto a loro anche nei momenti più difficili della guerra, e di continuare a vivere assieme a loro in una situazione che rimane sempre di emergenza, dà loro forza e li aiuta a non sentirsi abbandonati a loro stessi. “Grazie che siete rimasti”, “grazie che siete tornati”, ci hanno detto in molti nei tristi giorni dell’immediato dopo guerra. Siamo in mezzo a loro e con loro: nel ministero parrocchiale dove ogni giorno siamo sollecitati dalla miseria di tanti; nella visita alle comunità cristiane dell’interno, isolate dalla distanza e dall’impraticabilità delle strade e soprattutto dalla dimenticanza di tanti; nella conduzione delle nostre scuole, le quali non solo continuano a sopravvivere nonostante tutto, ma a volte conoscono degli sviluppi inattesi in questi tempi difficili, e che stupiscono e confortano soprattutto i più poveri (“il padre pensa a noi”); nel servizio agli handicappati, ai “ragazzi di strada”, ai prigionieri. Questa è una maniera molto semplice ma efficace per restituire loro il senso della loro dignità. Dignità che ha il diritto di essere riconosciuta e rispettata, ma che proprio per questo a sua volta deve accordare rispetto ad ogni persona umana. La non-violenza evangelica nel rivendicare la propria dignità e i propri diritti, l’abbandono dell’odio e della vendetta nei confronti anche di chi opprime, il rifiuto della guerra come mezzo per risolvere i problemi: questi non sono atteggiamenti spontanei, né facili, neppure per noi cristiani. Per cercare di acquisirli noi stessi e farli acquisire dalla nostra gente occorre riflessione, preghiera, dialogo, persuasione, e soprattutto l’esempio concreto del rispetto offerto ad ogni persona.

2. La nostra Provincia ZA conta oggi nove sacerdoti congolesi e una quarantina di religiosi, scolastici e fratelli. Oggi non si parla più molto di inculturazione. Tuttavia la sfida rimane, sia per la vita religiosa sia per la formazione, rimasta fino ad oggi sul modello europeo. Si può dire che stiamo camminando verso un’incarnazione del carisma dehoniano nel modo di vivere la vita religiosa in questa Provincia africana, dove siamo presenti da più di un secolo? Quali i tentativi? Quali le difficoltà?

Nella nostra Provincia, i primi tentativi di accogliere dei giovani congolesi nella nostra Congregazione, partecipando loro il nostro carisma, risalgono agli anni immediatamente precedenti l’indipendenza del paese (1960). Nel 1964, quando scoppiò la ribellione, avevamo 3 sacerdoti congolesi e 7/8 fratelli. Quel periodo drammatico, fatto di disordini e di violenze, portò alla dispersione di quei nostri confratelli: finita la guerra, nessuno di loro ritornò in comunità. L’esperienza segnò negativamente lo spirito di molti confratelli, i quali giunsero alla convinzione che la vita religiosa non era fatta per i congolesi (o forse eravamo noi, incapaci e impreparati a proporla loro?). Il fatto è che, durante una riunione provinciale svoltasi a Kisangani verso il 1975, la maggioranza degli SCJ presenti in sala decise che la nostra Provincia non poteva più ricominciare questo tipo di esperienze, poiché la prima si era manifestata fallimentare. Per fortuna lo Spirito Santo agiva, ed alcuni confratelli vi prestarono ascolto: nel 1978 si accettò un giovane congolese al noviziato e nel 1985 avemmo il primo sacerdote della “nuova generazione”.

Da allora molte cose sono cambiate, e molto progresso fu realizzato nel settore delle vocazioni e della formazione. La nostra Provincia vi investì molto, in risorse materiali e in personale. Le differenti tappe di formazione (propedeutica, postulantato-noviziato, filosofia, teologia) hanno ora le loro strutture materiali e le loro équipes formatrici. Si è elaborata una Ratio Formationis Provincialis, che si sforza di tenere conto di certi elementi culturali propri dei nostri giovani in formazione (modo di vivere la solidarietà e i rapporti col mondo esterno e con la famiglia, liturgia dei voti…). I risultati numerici (confratelli sacerdoti e giovani in formazione) sono positivi e molto promettenti. Naturalmente questo non basta per realizzare un’inculturazione in profondità della formazione proposta ai nostri giovani. Tale obbiettivo potrà essere perseguito in modo più confacente da confratelli congolesi, a condizione che all’indole “africana” e “congolese” accompagnino una profonda esperienza personale di Gesù Cristo e un’opportuna preparazione. A questo riguardo stiamo per raccogliere i primi frutti di un lavoro iniziato alcuni anni fa: p. Albert Lingwengwe sta per terminare la sua preparazione “accademica”, e fra qualche mese comincerà il suo servizio al nostro Noviziato a San Gabriele (Kisangani). Dopo di lui, prevediamo altri due confratelli congolesi, che speriamo potranno iniziare fra poco la loro preparazione per essere formatori. Questo è per noi molto confortante e ci incoraggia a proseguire in questa direzione. Ritengo tuttavia che la prospettiva di avere dei formatori autoctoni non ci deve spingere a “mettere in soffitta” i formatori provenienti da altre nazioni: né oggi, né domani. La presenza e la collaborazione di differenti sensibilità nel settore della formazione può portare frutti preziosi anche per l’inculturazione del nostro modello formativo scj in Congo.

Per quanto riguarda il modo di vivere ed esperimentare la vita religiosa dehoniana in generale qui in Congo, bisogna dire che fin’ora essa è stata realizzata per quasi tutta la sua storia da confratelli provenienti da altri orizzonti, e caratterizzati da una loro cultura propria. Certamente questa si differenzia per molti versi da quella che hanno trovato in questo popolo; ma ciò non ha impedito a molti missionari di farsi prossimi a questa gente ed amarla in modo sincero, concreto, spesso appassionato. La loro fedeltà alla vocazione ricevuta e il loro amore a questo popolo li ha portati a incarnare il nostro carisma dehoniano in questa società congolese e manifestarlo nell’attività di evangelizzazione, nell’insegnamento della gioventù abbandonata, nelle iniziative di promozione umana nel servizio degli ultimi. Questa è una dimensione essenziale e primaria per una vera inculturazione del nostro carisma dehoniano.

La nostra Provincia ha sempre avuto una composizione internazionale. Fin dall’inizio, essa si è caratterizzata come la missione della Congregazione: sono almeno tredici le Province che hanno inviato dei confratelli come missionari in Congo. Ciò che occorre notare oggi, è che i confratelli congolesi sono già un numero considerevole e che fra qualche anno saranno largamente maggioritari nella costituzione delle nostre comunità e nell’assunzione delle responsabilità in Provincia. Questo fatto potrà costituire un elemento importante per la realizzazione di una autentica inculturazione del nostro carisma e della vita religiosa dehoniana in Congo: inculturazione che sia incarnazione e manifestazione di ciò che di più profondo e di più ricco il nostro carisma possiede. Senza dubbio questa nuova composizione delle nostre comunità e della nostra Provincia porterà con sé nuove sensibilità e manifestazioni differenti e originali nella vita fraterna e nell’agire apostolico. Questo esigerà da tutti grande senso di responsabilità, capacità di riflessione personale e comunitaria, sincero attaccamento alla nostra Congregazione, assimilazione della nostra spiritualità e del nostro carisma, amore sincero alla chiesa e alla nostra gente. Questo condurrà a nuovi atteggiamenti e a nuovi equilibri nel vivere e nell’operare dei nostri religiosi e delle nostre comunità, a nuovi equilibri tra vita fraterna e rapporti con la gente, tra povertà religiosa e solidarietà, fra senso di appartenenza alla comunità religiosa e rapporti con la propria famiglia, fra relazioni con gli uomini e comunione con Dio.

3. Ormai il gruppo scj zairese è abbastanza consistente, grazie a Dio e all’impegno vocazionale che avete avuto negli ultimi anni. Come vengono iniziati cammini nuovi? Come viene preparato il cambio di direzione e di personale, in vista della costituzione di una Provincia veramente “africana”, per portare avanti “le grandi opere missionarie” e soprattutto l’impegno nel sociale e nell’insegnamento, la cui realizzazione ha riposato fino ad oggi sui finanziamenti provenienti dall’estero e dalla Congregazione? Quali sono le sue speranze?

È vero che nella Provincia ZA cominciamo ad avere un buon numero di confratelli congolesi e le nostre case di formazione accolgono molti giovani. Fra cinque anni si può prevedere che la nostra Provincia conterà una quindicina di sacerdoti congolesi e 5/6 fratelli con voti perpetui. Per gli anni seguenti, l’aumento si annuncia ancora più promettente. Tuttavia non posso non fare osservare che, nonostante l’arrivo dei nuovi confratelli congolesi, l’effettivo della nostra Provincia è fortemente diminuito negli ultimi anni, a causa dei decessi e di numerosi confratelli rientrati nelle Provincie di origine. Questo fa sì che attualmente ci troviamo in gravi difficoltà a sostenere il peso delle opere che ereditiamo dal nostro passato, quando il numero dei missionari era considerevolmente più alto. Ciononostante, in previsione di giorni migliori, l’orientamento dei confratelli e dell’attuale Amministrazione Provinciale, è quello di conservare tutte le opere nelle quali siamo attualmente impegnati.

Fra tutte le opere, conviene menzionare quelle che la Provincia ha scelto come prioritarie per i prossimi anni. A parte il settore formativo, di cui ho già parlato, segnalo anzitutto l’impegno della Provincia nell’insegnamento. Questo non è nuovo per noi: da molti anni dirigiamo due scuole (Collegio Maele a Kisangani, e Istituto Bernardo Longo a Mambasa): funzionano abbastanza bene, soprattutto tenendo conto del marasma nel quale si trovano quasi tutte le scuole del Congo. A queste si aggiungano altre quattro scuole secondarie, fondate vicino alle nostre parrocchie e che sono affidate alla gestione cattolica. Nell’attuale nostra situazione, se vogliamo fare qualcosa per salvare la nostra gioventù, è urgente investire molto nell’insegnamento, sia in denaro e sia in personale. Molte nostre scuole hanno delle strutture materiali cadenti, una mancanza spaventosa di mezzi didattici e un corpo insegnanti privo di salario, privo di motivazione, privo di preparazione, privo di sostegno. Attualmente purtroppo solo due scuole hanno un certo aiuto economico esterno, e solo un giovane fratello sta facendo degli studi che gli permetteranno di impegnarsi in questo settore.

Anche l’impegno nel sociale è stato scelto come prioritario dalla nostra Provincia. Due confratelli si impegnano con grande generosità nel servizio degli handicappati (al Centro Simama di Kisangani e al Centro Monzoto di Basoko), dei “ragazzi di strada” e dei prigionieri (Casa San Lorenzo, di Kisangani). È un settore per il quale occorre trovare nuove forze, ma questo non sarà possibile nell’immediato.

Altra priorità della Provincia, che necessita una previsione e preparazione di personale specializzato è quella della “formazione delle persone”. È una necessità che si impone a tutti i confratelli che lavorano nella pastorale (formazione di catechisti, di animatori delle CEB, di collaboratori vari). Ma la Provincia dispone di un mezzo privilegiato, il Centro Mgr. Grison (a Kisangani). Per il momento un solo confratello, purtroppo anziano, vi opera, con molta dedizione. Un altro giovane sacerdote comincerà fra poco una preparazione specifica, per impegnarsi poi in quest’opera.

La questione dell’autonomia finanziaria per sostenere la nostra vita comunitaria e le nostre opere apostoliche è un problema molto serio. Per il momento esso va ben al di là delle nostre reali possibilità. Dei tentativi sono stati fatti, nel settore agricolo e dell’allevamento, per dare una certa autonomia alle nostre case di formazione. I risultati sono molto modesti, insufficienti. Certamente in queste esperienze ci sono delle cose da rivedere e da correggere. Non dimentichiamo tuttavia che nell’attuale situazione del Congo (e di Kisangani in particolare), al di fuori del commercio, non esiste alcuna attività economica che sia redditizia. Tutte le imprese sono al collasso. Per ora non possiamo fare altro che affidarci agli investimenti bancari (nella misura in cui ci sono) e, per il resto, sperare ancora nella solidarietà delle Province sorelle e dei benefattori.

Siamo animati da speranza? Certamente! Senza speranza e senza ottimismo, non si può restare nel Congo né continuare a fare il missionario. Dobbiamo necessariamente essere animati da speranza. Speranza in Dio, anzitutto, perché siamo sicuri che quest’opera è sua: la missione ci viene da Lui, è Lui che ci manda a questo popolo, nella situazione concreta che conosce attualmente il Congo. E speranza anche negli uomini, in modo particolare nei confratelli, figli di questo paese, che Nostro Signore ha cominciato a inviarci. E non solo speranza, ma anche fiducia, cordialità, disponibilità al dialogo e alla collaborazione. Insieme potremo lavorare e far progredire il Regno di Dio in questo paese e impiantarvi saldamente anche la nostra Famiglia Dehoniana e il nostro carisma.

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P. Evaristo Martínez de Alegría scj (Provincia Spagnola), si è dedicato alla formazione e al ministero parrocchiale nella sua Provincia. Dal 1986 al 1992 è stato superiore del Collegio Internazionale di Roma. Dal 1999 è vice-postulatore generale e membro del Centro Studi.