CONGO: GIORNI FERIALI

Viaggio Vicomero - Goma



C’è nel Congo qualcosa di nuovo. E’ l’impressione nata dall’ultimo viaggio a Goma, nel Kivu.

La gente "vive", nonostante tutto, si sente parte dell’unico paese e ha tanta voglia che finisca questa "sporca guerra" che distrugge, umilia, uccide.

Non ha alcun sostegno ideologico e non serve che al profitto di pochi.

Una forza di pace internazionale, avrebbe l’appoggio della popolazione compresi i militari locali a cui basterebbe assicurare la sopravvivenza delle loro famiglie e potrebbe appoggiare il dialogo tra i leaders e le forze vive del paese.

Resta vero quanto è stato detto e scritto in questi anni: angoscia, sparizioni, massacri, legati alle "liberazioni" (invasioni) imposte dall’esterno con l’appoggio di alcuni gruppi locali, ma c’è anche il nuovo di una resistenza consapevole e solidale, il desiderio del dialogo intercongolese che nasce da un’anima comune, e l’impegno oblativo di tante persone fino al martirio.

Sono partito da Roma a metà dicembre con Edda e Luisa. Un viaggio in Africa è immergersi nella natura, nel mistero, oggi da molte parti anche nel dolore.

L’incontro con la comunità e gli amici è la vera meta.

Vedo il deserto, il Nilo, gli altopiani dell’Etiopia, costeggiamo il lago Vittoria.

E’ un’esplosione di vita: cielo, alberi, spazi infiniti, colori. Alloggiamo a Entebbe, un giorno di attesa prima di raggiungere Goma.

Guardiamo i frutti enormi dell’albero del pane, la varietà degli uccelli tropicali. Parliamo con il giardiniere, è un profugo, viene da Rutchuru (Kivu). Ha perso tre figli in guerra, - ci dice in Kiswahili - "vita bila sababu".

Dice quello che pensa la gente che della guerra non conosce che le conseguenze mentre il paese continua ad essere saccheggiato.

Ogni giorno partono senza alcuna tassa aerei carichi di oro, diamanti, e soprattutto niobio, coltan che servono per le nuove tecnologie. E’ passato un anno dall’arresto di Mons. Kataliko, vescovo di Bukavu, perché aveva denunciato l’occupazione della regione da parte del regime di Kigali e la guerra che in venti mesi ha causato 1.700.000 vittime, soprattutto donne e bambini. Non posso dimenticarlo.

Dal piccolo aereo osserviamo i nuovi centri abitati del Rwanda, casette allineate che sostituiscono i villaggi tradizionali. Mi dicono - è la ricostruzione "controllata" del nuovo regime. Arriviamo a Goma.

La città sembra percorsa da un fremito di vita: una fiumana di gente, posti di vendita di piccoli artigiani ai bordi della strada, moto - taxi, angoli per coiffeur, tappeti, sedie, bancarelle e negozi, giovani e ragazzi che cercano sulla strada o al mercato il modo di sopravvivere.

Nella città ci sono almeno centomila profughi - mi dicono - ma non possono dichiararlo per non essere rinviati all’interno delle vallate dove gli scontri tra soldati e partigiani sono frequenti.

Non ci sono salari per gli agenti della pubblica amministrazione, né per gli insegnanti, né per i soldati. Pochi possono disporre di un dollaro al giorno. Lavoro, cibo medicinali, vestiti… per molti sembrano un sogno. Si vede sui volti, lo si impara ascoltando. Sofferenza, tanta sofferenza e solidarietà è l’impasto del quotidiano.

Ho sentito soprattutto l’umiliazione di uomini e donne per non riuscire a provvedere con il proprio lavoro alle necessità della famiglia.

Ma la popolazione vuole vivere. Per questo si continua a viaggiare nonostante gli agguati sulle strade, ci si incontra al mercato, in chiesa, dappertutto, nonostante l’insicurezza e la scuola resta aperta anche se il tetto è pericolante.

Ho visto a Natale e a fine anno, vestirsi a festa.

Come a Sarajevo negli anni più duri del conflitto. Mi hanno insegnato che il coraggio di vivere, di lavorare è come la veglia nella notte che anticipa il giorno. E’ la resistenza del quotidiano che diventa opposizione nei momenti di tensione.

Le famiglie si sono rifiutate di mandare i loro figli nell’esercito, le donne hanno fermato convogli che stavano per partire, si rifiuta di adoperare il franco ruandese.

Mi raccontano delle marcie a Butembo e a Bunia a causa della guerra e delle sofferenze imposte alla cittadinanza. Protagoniste sono le donne. Paralizzano la circolazione, hanno i seni nudi in segno di protesta. La loro voce:

Nessuna chiesa né cattolica, né protestante, celebrò più l’eucarestia domenicale per un mese.

Seguirono poi due mesi di sciopero nelle scuole e di tutte le attività sociali, dei taxisti con giornate di "ville morte" in cui la vita della città fu completamente paralizzata. Nessuno usciva di casa.

Oggi la resistenza continua soprattutto con l’attuazione dei "programmi" per l’animazione rurale, l’agricoltura, l’allevamento, la promozione femminile, in cui si cerca di coniugare sviluppo e impegno politico.

A Goma partecipo per qualche settimana alla vita della comunità, un piccolo gruppo di uomini e di donne ma un angolo di vita e di speranza per tanta gente della città.

Ho pensato a Emmaus dove Gesù spezza il pane e fa rinascere la speranza. La domenica celebro con loro la messa alla prigione centrale. E’ un momento tranquillo, leggo negli occhi storie di dolore. Nel cortile arrivano le mamme del quartiere, cantando portano il cibo che sono riuscite a trovare. Un giovane mi accompagna al vicino centro per disabili… rivedo tanti amici. Mi dicono: " grazie per essere venuti, siete per noi il regalo di Natale". E’ gioia rivedersi, e soprattutto dopo i pericoli che hanno vissuto. Visito il centro nutrizionale "Nyumba ya Watoto". Sono tanti i bimbi accolti. L’infermiere mi dice: "E’ un segno di speranza… e sono pochi nella città". Molti bambini si sono ristabiliti, sono contenti. La "Nyumba ya Watoto" si regge con il lavoro dei locali e con l’aiuto di persone e famiglie che con l’adozione a distanza contribuiscono alle spese dell’accoglienza.

Qualcuno però mi ha detto: "questi sono guariti, ma gli altri"? Vedo negli occhi il desiderio della pace vera, che consenta di tornare nei campi, di provvedere a se stessi.

Incontro sfollati, mamme soprattutto, che mi dicono: " padiri, njaa, unisaidie - padre, fame, aiutami".

Sento una lacerazione profonda, ho visto negli anni precedenti la sofferenza di folle di profughi e di sfollati… non posso dimenticare. La notte mi sveglio, sento quasi paura del giorno. Paura di incontrare persone con tanti problemi senza potere fare nulla… ma Dio è presente sul cammino dei poveri, ascolto l’invito a non avere paura e ad amare come posso, accogliendo, ascoltando.

C’è pace allora nel cuore.

Penso a Gesù, al suo camminare tra la gente circondato da mille problemi e povertà.

Gesù ama, consola, c’è.

Guardo i membri della Fraternità Missionaria, i padri saveriani Piero e Sisto, e le laiche missionarie Luisa e Antonina che vivono in Congo da più di trentanni. Sento tanta riconoscenza. Con loro, Gesù continua a visitare ammalati dell’ospedale e moribondi nelle loro case, a insegnare un mestiere a giovani e ragazze, a nutrire e consolare i detenuti dei cachot, è l’esperienza più angosciosa… scendere, spesso, in seminterrati e incontrare uomini ridotti a larve, a un gemito di dolore.

E’ la loro vita di tutti i giorni, impastata di pazienza, di coraggio, di tanta fede.

Con loro ho imparato ad ascoltare il ‘magistero’ dei poveri fatto di sofferenza, di lotta, di attesa.

E’ scritto con la vita, spesso con il sangue innocente come quello di Abele. Il loro dolore è la denuncia più forte delle ‘strutture’ di peccato e delle guerre assurde di oggi.

Ho riscoperto il Padre Nostro come la preghiera dell’uomo in cammino su questa terra, chiamato a costruire la vita giorno per giorno perché la sua volontà di pace sia fatta qui, su questa terra come in cielo.

Non si può recitarla senza condividere il pane e i beni, senza tenersi per mano nel dolore.

E’ la preghiera della lotta contro il male e ogni schiavitù. E’ la preghiera della fiducia nella vita e nell’abbandono nelle mani del papà buono.

In questa luce i giorni feriali, come la vita di ciascuno e di ogni popolo fa storia e crea futuro oltre le apparenze.

Tornando da Goma ho avuto la fortuna di visitare Namugongo, il luogo dove sono stati bruciati giovani cattolici e anglicani, i martiri dell’Uganda. Ho sostato a lungo nella chiesa - capanna. Ho pregato il Crocifisso con i martiri di ieri e di oggi.

"Gesù, hai vinto la croce, il fango dell’uomo. Hai portato luce dove c’era buio. Carolo Lwanga e tanti altri, con te hanno continuato ad essere luce nel buio del tormento dell’uomo sull’uomo".

Sulla croce, illuminata dal dono della vita, nasce la dignità più grande dell’uomo, si scopre la direzione più vera della vita.

La catena del male è spezzata, nasce la speranza. Davvero il martire è fatto, con Cristo, eucarestia per il suo popolo.

Abbiamo fatto il viaggio, nello spirito del giubileo, con la certezza di incontrare Cristo presente nei fratelli in difficoltà per imparare a spezzare insieme il pane della solidarietà. Non possiamo dimenticare.

Sento ancora di più l’impegno di partecipare alla missione di pace "Anch’io a Bukavu" con don Albino e gli altri per dare una risposta agli appelli della gente che soffre, per aiutarci a ravvivare la profezia che chiama a spezzare le ‘catene inique’.

Abbiamo molto da farci perdonare dai popoli africani per un passato di violenza, ma soprattutto per l’indifferenza, oggi della comunità internazionale nei confronti di milioni di vittime causate da guerre che mirano al controllo dei diamanti e dei metalli richiesti dalle nuove tecnologie.

E’ urgente un’azione internazionale di pace per esercitare una pressione sui leaders africani e quanti sono responsabili o coinvolti nel conflitto.

"Ricordare la shoah - ha detto l’artista Moni Ovadia - senza fare nulla per le vittime di oggi vuole dire uccidere due volte le vittime di allora".

Vicomero 20 gennaio 2001
Silvio Turazzi