RADUNO DEGLI ANIMATORI MISSIONARI SCJ -- ROMA 2001

ALLEGATO n.1

MISSIONE IN MOLTI MODI

Tutto é missione?

Gli ultimi decenni hanno assistito indubbiamente a una sorprendente escalation nell'uso del termine "missione" - sorprendente, cioé, alla luce del fatto che gli stessi decenni sono anche stati testimoni di una critica senza precedenti dell'impresa missionaria. L'inflazione del concetto ha implicazioni sia positive che negative. Uno dei risultati negativi é stata la tendenza a definire la missione in termini troppo ampi, il che ha indotto S.C. Neill a formulare il celebre adagio: «Se tutto é missione, nieme é missione». Rimane eccezionalmente difficile determinare che cosa sia la missione. Tutto questo studio si é svi-luppato a partire dall'assunto che la definizione di missione sia un pro-cesso continuo di separazione, prova, riformulazione e scarto. Trasforma-zione della missione vuol dire sia che la missione deve essere concepita come un'attività che trasforma la realtà, sia che vi é un'esigenza costante che la missione stessa venga trasformata.

I tentativi di definire la missione sono di epoca recente. La chiesa pro-tocristiana non intraprese alcun tentativo del genere - almeno non co-scientemente. E tuttavia, le panoramiche sulla "teologia della mis-sione" di Matteo, Luca e Paolo mostrano che gli scritti di tali auto-ri possono essere interpretati come vigorosi tentativi di definire e ridefini-re ciò che la chiesa era chiamata a fare nel mondo dei loro giorni. In tem-pi a noi più vicini, é però diventato necessario formulare definizioni della missione in maniera più consapevole ed esplicita. A partire dal dicianno-vesimo secolo, vi sono state vere e proprie schiere di tali tentativi.

Negli anni della conferenza di Gerusalemme dell'IMC (l928), divenne chiaro che la maggior parte delle definizioni erano irrimediabilmente ina-deguate. Gerusalemme coniò l'idea dell'"approccio comprensivo", che segnò un progresso significativo rispetto a tutte le definizioni precedenti di missione. Per sintetizzare la propria concezione della missione, la con-ferenza di Whitby dell'IMC (l947) adoperò poi i termini k_rygma e koi-n_nía. Un po' più tardi a questi due si aggiunse un terzo elemento: la diakonía. La con-ferenza di Willingen (l952) fece propria la formula estesa, aggiungendovi, .come concetto preminente, la nozione di "testimonianza", mart_ria: «Questa testimoniànza é resa con l'annuncio, la comunione e il servizio». Nei tre decenni successivi, le discussioni missiologiche furono dominate da tale formula, vista come la rappresenta-zione più appropriata e comprensiva della natura (vera o presunta) della missione. É una formula che, dopo il l952, si incontra in quasi tutti i libri di teologia della missione. Si daranno, naturalmente, alcune varianti nelle definizioni. Martyria e k_rygma sono trattati talvolta in maniera intercam-biabile, come sinonimi. Altri vi aggiungono come ulteriore elemento la leiturghía: la "liturgia".

Anche modificata, tale formula presenta però gravi limiti. É chiaro che essa é servita a liberare la missione dalla camicia di forza di una definizione in termini di mero annuncio o insediamento di chiese e che, di quando in quando, può ancora servire a qualcosa. Però si deve ammettere, che essa contribuisca soltanto a mettere in luce i-dee e attività tradizionali. Abbiamo davvero bisogno di un'ermeneutica della missione più radicale e comprensiva. Nel tentativo di conseguirla, può darsi che ci avvicinere-mo a considerare ogni cosa come missione, ma é un rischio che dobbia-mo correre. La missione é un ministero multiforme, che coinvolge testi-monianza, servizio, giustizia, risanamento, riconciliazione, liberazione, pace, evangelismo, comunione, insediamento di nuove chiese, contestua-lizzazione e molto altro. Eppure, lo stesso tentativo di elencare alcune di-mensioni di essa é gravido di pericoli, poiché suggerisce ancora una volta la possibilità di definire ciò che é infinito. Chiunque siamo, abbiamo la tentazione di imprigionare la missio Dei entro gli angusti confini delle no-stre predilezioni, ricadendo cosi necessariamente nell'unilateralità e nel ri-duzionismo. Dobbiamo diffidare di ogni tentativo di delineare troppo neltamente i contorni della missione. Si tratta forse, in realtà, di un'opera-zione che non può essere compiuta per mezzo della theòria (che compor-ta «osservazione, resoconto, interpretazione e valutazione critica»), ma soltanto per mezzo della pòí_sis (che comporta la «creazione o rappresen-tazione immaginativa di immagini evocative»).

Volti della chiesa-in-missione

La nostra missione, per essere credibile e fedele alle proprie origini e al proprio carattere, deve essere multidimensionale. Per dare un'idea della natura e della qualità di questa missione multidimensionale, potremmo forse fare appello a immagini, metafore, eventi e raffigurazioni, piuttosto che alla logica e all'analisi. Un modo per delineare il profilo di ciò che la missione é e comporta potrebbe esse-re quello di considerarla nei termini di sei grandi "eventi salvifici" rap-presentati nel Nuovo Testamento: l'incarnazione di Cristo, la morte in croce, la risurrezione il terzo giorno, l'ascensione, l'effusione depo Spirifo Santo a Pentecoste, e la parusia.

l. L'incarnazione. Le chiese protestami hanno una teologia dell'incar-nazione nel complesso sottosviluppata. Le chiese orientali, i romano-cat-tolici e gli anglicani hanno sempre preso molto più sul serio l'incarnazio-ne - anche se la chiesa orientale tende a concentrarsi sull'incarnazione nel contesto della preesistenza, dell'"origine", di Cristo. In anni recenti, é stata però la teologia della liberazione a considerare la missione cristiana, molto più esplicitamente che nel passato, nei termini del Cristo incarna-to, dell'uomo Gesù di Nazaret che calpestò faticosamente le strade polve-rose della Palestina dove ebbe compassione per coloro che erano emargi-nati. Il Cristo incarnato é anche colui che si schiera, ai giorni nostri, a fianco di coloro che soffrono nelle favelas del Brasile o che sono abban-donati nelle aree di reinsediamento del Sudafrica. In questo modello, l'in-teresse non é per un Cristo che offre soltanto la salvezza eterna, ma per un Cristo agonizzante, che suda e sangwina con le vittime dell'oppressio-ne. É criticata la chiesa borghese dell'Occidente, che inclina al docetismo e per cui l'umanità di Gesù é soltanto un velo che ne nasconde la divi-nità. Questa chiesa borghese ha una concezione di sé di tipo idealistico, rifiuta di schierarsi, e pensa di dare una casa a padroni e schiavi, a ricchi e poveri, a oppressori e oppressi. Poiché rifiuta di praticare la «solida-rietà con le vittime» questa chiesa ha perso la sua rilevanza. Avendone eliminato le dimensioni sociali e politiche, ha completamente snaturato il vangelo.

La chiesa occidentale ha avuto la tentazione di leggere i van-geli - secondo la famosa locuzione di M. Kähler - come «racconti della pas-sione preceduti da lunghe introduzioni». La sottolineatura del significato dell'incarnazione, che ha trovato accoglienza nel movimento ecumenico almeno a partire dalla conferenza di Melbourne della CWME del l980, richiama la nostra attenzione proprio su queste "lunghe introduzioni" e sui loro significato per la nostra missione. La conferenza di Melbourne si concentrò in larga parte sul «Gesù terreno, il giudeo, il nazareno, che vis-se come un uomo comune della Galilea, pati e fu giustiziato, morendo sulla croce» . La "prassi di Gesù" ha davvero molto da dire sulla natura e il conte-nuto della missione oggi.

2. La croce. La locuzione di Kàhler rivela la preoccupazione della chie-sa occidentale - cattolica e protestante - per la passione e la crocifissione di Gesù. alla domanda: «Qual é l'essenza del vangelo?», la maggior parte dei cristiani occidentali risponderebbe probabilmente: «É che Cristo é morto in croce per i miei peccati». Senza imbarcarsi in una discussione della dottrina dell'espiazione, é sufficiente dire che tale concezione pos-siede effettivamente una base biblica; sulla base di detti come Marco l0,45 e di diverse affermazioni di Paolo, é possibile concludere che, per molti membri della chiesa primitiva, Cristo era il nuovo "luogo di espia-zione" che aveva preso il posto del tempio. A colo-ro che lo accettano come Salvatore é concessò il perdono dei peccati. Ciò permette loro di divenire membri di una nuova comunità salvata, deno-minata chiesa, che é l'organismo unitario di coloro con cui Dio intrattie-ne una relazione particolare.

La morte in croce di Gesù non deve essere però isolata dalla sua vita. Le "lunghe introduzioni" ai vangeli sono esse stesse già racconti della passione. La kénòsis di Gesù, lo svuotarsi di sé, ebbe inizio con la sua na-scita. Ed é a causa della sua identificazione con quanti erano ai margini della società e del suo rifiuto di agire secondo le convenzioni del tempo, che egli fu crocifisso. Ma questo non é tutto. La croce di Gesù é l'unico distintivo della fede cristiana. E quando il Cristo risorto incaricò i suoi discepoli di partire per la stessa missione che egli aveva ricevuto dal Padre, furono le cicatrici della sua passione a rivelare loro chi fosse (Gv 20,20). Senza la croce, il cristianesi-mo sarebbe una religione della grazia a buon mercato. La croce é contraria alle inclinazioni di ogni essere umano. Non é naturale. E se, nell'era postmoderna, può sembrare che la religione sia ridiventata accettabile e naturale, va messo in evidenza che una religione della croce non può essere natura-le; la croce costituisce un pericolo costante per ogni religiosità.

Le cicatrici del Signore risorto non provano però soltanto l'identità di Gesù; esse costituiscono inoltre un modello da imitare per coloro che egli manda: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi» (Gv 20,2l). É una missione di svuotamento di sé, di umile servizio: sta qui il valore permanente dell'idea bonhoefferiana della "chiesa per gli altri". Nella se-rie delle conferenze missionarie internazionali, furono soprattutto Geru-salemme (l928) e Willingen (l952) a collocarsi nel segno di una teologia della croce. Willingen si riunì per trattare il tema: «Il dovere missionario della chiesa»; il suo rapporto fu però pubblicato con il titolo Missions un-der the Cross [Missioni sotto la croce]. Tutta la missione é ministero alla verità nell'umiltà. Alla presenza della croce, la chiesa-in-mis-sione deve pentirsi dei suoi peccati prima di intraprendere la missione. Per dirla con le parole del discorso di Käsemann alla conferenza di Mel-bourne: «Le chiese che non si pentono negano la loro realtà e rifiutano il Signore che dovette arrivare a morire per loro. Esse non si pongono sotto la croce, dove vengono alla luce tutti i nostri peccati e dove siamo croci-fissi con tui nella nostra umanità». Paolo arrivò a scopri-re che non era a dispetto, ma in virtù, della morte che si trovava a morire ogni giorno, che egli era un apostolo, un missionario (cf. I Cor l5,3l; 2 Cor l2,l0). «Quando Cristo chiama un uomo, gli chiede di venire e mori-re», scrisse Bonhoeffer in pieno conflitto ecclesiale tedesco. Sta qui il significato missionario della croce. «La sofferenza é la modalità dell'attività divina nella storia. [...] La missione della chiesa nel mondo é anch'essa sofferenza [...] é partecipazione all'esistenza di Dio nel mondo».

La croce rappresenta anche la riconciliazione fra individui e gruppi di-venuti estranei gli uni agli altri, fra oppressori ed oppressi. Ovviamente, la riconciliazione non é una mera armonizzazione sentimentale di gruppi in lotta fra loro. Esige sacrificio, in modi molto diversi ma anche molto reale, da parte sia dell'oppressore che dell'oppresso. Esige la fine dell'op-pressione e dell'ingiustizia e l'impegno a una vita nuova di reciprocità, giustizia e pace. E tuttavia, senza togliere nulla a questa affermazione, bi-sogna anche aggiungere che vi sono toni che non possono essere riparati con mezzi esclusivamente umani, che non dobbiamo lasciarci intrappola-re da «sentimenti di colpa vani e disperati», o dall'idea «che la giustizia debba essere la nostra giustizia, di potere e dovere cancellare la nostra colpa con una riparazione, o [...] superare la nostra frustrazione con la mera azione».

Dei maestri morali del mondo, solo Cristo non fa dipendere ogni cosa dalla riuscita morale. Oltre che riconciliazione, la croce significa dunque - missiologicamente parlando - un ministero di amore per i nemici, un ministero di perdono. Essa é affermazione del fatto «che vale la pena di a-mare, qualunque possa esserne il costo in termini di dono di sé e addirit-tura di morte» (Segundo l986, l52; corsivo nell'originale). É soprattutto per questo che Gesù donò la sua vita. Qui si aggiunge una citazione dello staretz Silouan: «Senza amore per i nemici, non c'é sequela di Cristo». É un detto molto duro, poiché segna la fine di ogni forma di ipocrisia. La croce, pertanto, é anche una catego-ria critica. Ci dice che la missione non può trovare realizzazione quando siamo forti e sicuri, ma soltanto quando siamo deboli e disorientati. Nulla di quel che facciamo é esentato dal giudizio della croce. Non vi é azione virtuosa che non abbia bisogno allo stesso tempo di essere perdonata, an-che perché la forza che oggi opera in favore della giustizia domani potrà essere ingiusta.

3. La risurrezione. Nelle chiese orientali, é la risurrezione di Cristo a costituire l'evento salvifico di Dio per eccellenza. Gli ideatori della confe-renza di Melbourne (l980) avevano assegnato alla sezione IV il terna: «Il Cristo crocifisso sfida il potere umano». I partecipanti ortodossi, però, criticarono la formulazione. Il terna fu dunque riformulato e mutato in «Cristo - crocifisso e risorto - sfida le potenze umane». L'intervento orto-dosso fu del tutto appropriato. Senza la risurrezione, la morte in croce di Gesù rimane priva di senso. I primi cristiani vedevano nell'evento pa-squale la legittimazione di Gesù. La croce e la risurrezione non si bilan-ciano reciprocamente; la risurrezione domina e sconfigge la croce. Il messaggio missionario della chiesa primitiva era, nella sintesi più comune, una testimonianza alla risurrezione di Cristo. E-ra un messaggio di gioia, speranza e vittoria, la primizia del trionfo defi-nitivo di Dio sul nemico. E i credenti potevano avere già parte in questa gioia e in questa vittoria. É proprio questo che esprime, fra le altre cose, la chiesa orientale con la sua dottrina della théòsis, della deificazione; l'i-nizio della «vita nell'incorruzione» (Clemente di Roma). Nella risurrezio-ne di Cristo, le forze del futuro si riversano già nel presente e lo trasfor-mano, anche se tutto ciò che colpisce lo sguardo appare immutato. La vi-ta cristiana continua, per cosi dire, su due piani. La promessa di Dio e la nostra speranza sono già realtà piena in Cristo, prima di trovare realizzazione completa nella storia umana; in Cristo, l'e-ternità é entrata nel tempo e la vita ha sconfitto la morte.

Dal pumo di vista della missiologia, ciò significa, in primo luogo, che il tema centrale del nostro messaggio missionario é che Cristo é risorto; si-gnifica di conseguenza, in secondo luogo, che la chiesa é chiamata a vive-re la vita della risurrezione nel qui e ora, e che é chiamata ad essere segno di contraddizione rispetto alle forze della morte e della distruzione - che é chiamata, cioé, a smascherare gli idoli della modernità e i falsi assoluti.

4. L'ascensione. La tradizione calvinista si concentra, si potrebbe dire, sull'ascensione. Per Giovanni Calvino, i cristiani vivono fra l'ascensione e la parusia; é da tale posizione che essi cercano di comprendere quale sia la loro missione. L'ascensione é prima di tutto il sim-bolo dell'intronizzazione del Cristo crocifisso e risorto: ora egli regna so-vrano. Ed é a partire dalla prospettiva del regno presente di Cristo, che il nostro sguardo ritorna sulla croce e il sepolcro vuoto e va alla consuma-zione di ogni cosa. La fede cristiana é contraddistinta da un'escatologia i-naugurata. Ciò vale non soltanto per la chiesa - come se fosse l'incarnazione presente del regno di Dio - ma anche per la società, per la storia, che é l'arena dell'attività di Dio. La storia della salvezza non é contrapposta a quella profana, né la grazia alla natura. La scelta di non partecipare alla società civile e di fondare delle piccole isole cristiane equivale pertanto all'adozione di una concezione mutilata e disgiuntiva dell'operato di Dio. Nella tradizione calvinista, vi é dunque un atteggiamento positivo nei confronti dei risultati che é possibile consegui-re nella storia umana e del mondo.

É possibile affermare che, assieme all'enfasi sull'incarnazione, questa tradizione teologica abbia influito più profondamente di qualunque altra sul movimento ecumenico. La tradizione calvinista é legata all'idea che l'ordine di vita di Cristo stia già facendosi strada con decisione all'interno del mondo. All'interno di questa prospettiva, missio-ne vuol dire che deve risultare naturale, per i cristiani, impegnarsi per la giustizia e per la pace nella sfera sociale. Il regno di Dio é reale, sebbene ancora incompleto. Non saremo noi a inaugurarlo, ma possiamo contri-buire a renderlo più visibile, più tangibile. In questo mondo ingiusto, siamo chiamati ad essere la comunità di coloro che aderiscono ai valori del regno di Dio, a preoccuparci delle vittime della società e ad annunziare il giudizio di Dio su coloro che continuano ad adorare gli dei del potere e dell'amore di sé. Per dirla con le parole della sezione IV.3 della conferen-za di Melbourne: «L'annuncio del regno di Dio é l'annuncio di un nuovo ordine che sfida quei poteri e quelle strutture che sono diventati demo-niaci in un mondo corrotto dal peccato contro Dio».

La gloria dell'ascensione rimane però strettamente legata all'agonia della croce. La conferenza di Melbourne parta anche dell'«immagine sconcertante [...] di un agnello sacrificato, macella-to ma vivo, che condivide il trono [...] con il Dio vivente». Analogamen-te, le parole di Gesù in Gv l2,32 - «quando sarò elevato da terra» - sono state interpretate tradizionalmente come un riferimento sia all'"elevazio-ne" sulla croce, sia all'ascensione. Il Signore che annunciamo nella mis-sione rimane il Servo sofferente. «Il principio dell'amore autosacrifican-tesi é [...] intronizzato al centro stesso della realtà dell'universo». E questo principio deve trasparire nella nostra prassi missionaria. Non é per nulla strano, pertanto, che Melbourne sia stata la conferenza in cui furono celebrate sia la debolezza del Gesù incarnato, sia la potenza del Cristo asceso.

5. La Pentecoste. I movimenti pentecostali e carismatici tendono a ve-dere nell'evento di Pentecoste l'opera di Dio per antonomasia. Alcuni ar-riverebbero addirittura ad affermare che, dopo un'età della storia della chiesa caratterizzata da una particolare enfasi su Dio il Padre e dopo la successiva età del Figlio, siamo entrati ormai - soprattutto dall'inizio del ventesimo secolo - nell'età dello Spirito. Nella nuova economia, aspiria-mo ora all'intera ricchezza dei cieli e all'estasi senza fine. In questi am-bienti, si incontrano perciò racconti di eventi miracolosi e l'allegria di u-na catena ininterrotta di esperienze culminanti.

Senza negare l'elemento di validità contenuto in questa interpretazione della Pentecoste, vorrei suggerire che, da un pumo di vista missiologico, bisogna dire qualcosa di più. Primo, quando i discepoli gli domandarono della restaurazione del regno di Israele (At l,6), il Cristo risorto rispose promettendo loro lo Spirito della testimonianza. Lo Spirito Santo é Spi-rito di coraggio (parr_sía) di fronte alle avversità e all'opposizione. Per-tanto, «la chiesa prosegue la missione di Cristo nella forza del suo spiri-to».

L'età dello Spirito é, inoltre, l'età della chiesa. E la chiesa nella forza dello Spirito é essa stessà parte del mes-saggio che annuncia. É una comunione, una koin_nía, che attualizza l'a-more di Dio nella sua vita quotidiana, e nella quale sono rese presenti e operanti la giustizia e la virtù. Non possiamo trascurare questa comunità: ignorarla ci é proprio vietato. É una comunità distin-ta, ma non é un circolo o una società-ghetto. Lo Spirito non può essere tenuto in ostaggio dalla chiesa, quasi che il suo unico compito fosse quel-lo di conservarla e di proteggerla dal mondo esterno. La chiesa esiste soltanto in quanto parte organica e integrante dell'intera comunità umana: «Non appena tenta di concepire la sua vita come dotata di signi-ficato indipendentemente dalla comunità umana nel suo complesso, essa tradisce infatti l'unico scopo che ne può giustificare l'esistenza».

Neppure la liturgia, neppure la celebrazione dell'eucaristia sono al di fuori di questo quadro di riferimento. Le chiese ortodosse ci insegnano che l'eucaristia é, di tutte le attività della chiesa, la più missionaria. Da un lato, essa é celebrazione e anticipazione del trionfo venturo di Dio, dall'altro, ogni volta che la celebriamo, é un invito a condividere il nostro pane con gli affamati.

6. La parusia. Sin dal primo secolo, vi sono stati dei gruppi avventisti la cui attenzione si é focalizzata sulla seconda venuta di Cristo. Essi hanno avuto la tendenza a considerare il regno di Dio come una realtà esclusiva-mente futura, e questo mondo come una valle di lacrime, imprigionata nella morsa del maligno. Per questo modello, la chiesa é una mera sala d'attesa dell'eternità. Lo sguardo del fedele é fisso su un orizzonte lonta-no e sulle nuvole, da cui Cristo ritornerà come Signore, per trasformare in un batter d'occhio tutte le cose.

La validità di questa concezione sta nel fatto che, nella fede cristiana, il primato spetta effettivamente al futuro. La missione é comprensibile sol-tanto quando il Signore risorto ha egli stesso ancora un futuro, un futuro universale per le nazioni. Per Pao-lo la missione era una risposta alla visione del trionfo ventu-ro di Dio. In ogni escatologia autentica, la visione del regno finale di Dio, di giustizia e di pace, opera come un poderoso màgnele - non perché il presente sia vuoto, ma pro-prio perché il futuro di Dio lo ha già invaso.

La chiesa non é il mondo, perché il regno di Dio é già presente dentro di essa. Pertanto, l'unità fra la chiesa e il mondo può essere riconosciuta e praticata soltanto dialetticamente, nella speranza - cioé alla luce del re-gno di Dio. Ma bisogna anche aggiungere che la chiesa non é il regno di Dio. Essa non ne ha il monopolio, non lo può re-clamare per se stessa, non può presentarsi di fronte al mondo come il re-gno di Dio realizzato. Il regno non sarà mai pienamente presente nella chiesa. Nondimeno, é nella chiesa che ha inizio il rinnovamen-to della comunità umana. Ma proprio in quanto avanguardia del regno di Dio, della terra nuova e della nuova umanità, la chiesa non deve mai tentare di provocare l'irruzione della fine, né deve limitarsi a conservare se stessa per tale fine. Il posto di questi due atteggiamenti é preso dalla missione della chiesa. In tale missione, la chiesa afferma il suo caratte-re preliminare e contingente. Praticando l'«evangelismo dell'attesa», pregusta sempre la sua abrogazione. Consapevole del suo carattere provvisorio, la sua vita e il suo ministero sono la vita e il ministero di quella forza che si pone al servizio, all'interno dell'umanità, del rinnovamento e della comu-nità di tutte le persone.

Dove va la missione?

I sei eventi salvifici cristologici non devono mai essere considerati se-paratamente l'uno dall'altro. Nella nostra missione, noi annunciamo il Cristo incarnato, crocifisso, risorto, asceso al cielo, presente in mezzo a noi nello Spirito, che ci conduce nel suo futuro «prigionieri della sua pro-cessione trionfale» (2 Cor 5,l4, NEB). Ciascuno di questi eventi influisce su tutti gli altri. Se non affermiamo questa verità, comunicheremo al mondo un vangelo mutilato. L'ombra dell'uomo di Nazaret, crocifisso sotto Ponzio Pilato, si stende sulla gloria della sua risurrezione e ascen-sione, sulla venuta del suo Spirito e sulla sua parusia. É il Gesù che cam-minò con i suoi discepoli che vive come Spirito nella sua chiesa (cf. Ef 2,20); é il Crocifisso che é risorto dai mord; é Colui che era stato innalza-to sulla croce che é stato innalzato nei cieli; é l'Agnello macellato eppure vivente che porterà a consumazione la storia.

Ma quale persona, quale chiesa, quale organismo umano sarà all'altez-za di questa chiamata (cf. 2 Cor 2,l6)? Tale fu la domanda che J.R. Mott pose a M. Kähler subito prima della conferenza di Edimburgo: «Ritiene che ab-biamo oggi, a casa nostra, un tipo di cristianesimo che debba essere dif-fuso in tutto il mondo?». Oggi non formuleremmo la domanda in maniera tanto ingenua. Ma é una domanda che continua a tormentarci. La missione cristiana é fatta oggetto di attacchi da ogni par-te, persino dalle sue stesse fila. Secondo L. Rütti l'intera im-presa missionaria moderna é talmente inquinata dal fatto di avere avuto origine in stretto collegamento con il colonialismo occidentale, da risulta-re irredimibile; al giorno d'oggi, é necessario trovare un'immagine del tutto nuova. Parlando a una consultazione tenuta a Kuala Lumpur nel febbraio 1971, Emerito Nacpil descrisse la missione come «un simbolo dell'universalità dell'imperialismo occidentale fra le generazioni emergenti del Terzo mondo». Nel missionario, gli abitanti dell'Asia non vedono il volto del Cristo sofferente, ma un mostro caritatevole. Nacpil conclude pertanto: «L'attuale struttura della missione moderna é morta. E la prima cosa da fare é recitarne l'elogio funebre e seppellirla». La mis-sione sembra essere il maggior nemico del vangelo. «Nel sistema attuale, il servizio più missionario che un missionario può rendere oggi all'Asia é andarsene a casa!» (ibid., 79). Sempre nel 1971, il kenyano John Gatu, parlando prima a un pubblico di New York e poi a un incontro della chiesa reformata americana a Milwaukee, propose una moratoria dell'im-pegno missionario occidentale in Africa. Molto tempo prima, nel maggio l944, Bonhoeffer aveva affermato, scrivendo da un carcere della Gestapo e riflettendo sulla chiesa tedesca come era arrivato a conoscerla:

«La nostra chiesa, che in questi anni ha lottato solo per la propria soprawivenza, co-me fosse fine a se stessa, é incapace di esser portatrice per gli uomini e per il mondo della parola che riconcilia e redime. Perciò le parole d'un tempo devono perdere la loro forma e ammutolire, e il nostro essere cristiani oggi consisterà solo in due cose: nel pregare e nell'operare ciò che é giusto tra gli uomini» .

Bonhoeffer, probabilmente, vedeva anche l'impresa missionaria estera come una lotta per l'autoconservazione della chiesa. Con minor reticen-za, James Heissig (1981) ha definito la missione cristiana «la guerra egoi-sta».

Contrariamente a quanto potrebbero far pensare alcuni di questi auto-ri, il fenomeno descritto non é affatto nuovo. La situazione empirica della chiesa é stata deplorevole per la maggior parte della sua storia. Era già cosi nella cerchia dei primi discepoli di Gesù, e da allora la situazione non é mai davvero mutata. Siamo stati forse abbastanza bravi nell'orto-dossia, nella "fede", ma siamo stati mediocri nell'ortoprassi, nell'amore. Van der Aalst ci rammenta che si sono tenuti innumerevoli concili sul modo giusto di credere; ma non é mai stato convocato nessun concilio per esplicitare le implicazioni del comandamento più grande: quello di amarsi l'un l'altro. Ci si può dunque domandare con qualche giustificazione se vi sia mai stato un periodo in cui la chiesa abbia avuto il "diritto" di fare opera missionaria. Ciò che Neill dice a proposito dei missionari é vero dei missionari di tutti i tempi, dal grande apastolo che si vantava nella sua debolezza, a coloro che continuano tuttora a chiamar-si "missionari": costoro «sono stati gente complessivamente debole, non molto saggia, non molto santa, non molto paziente. Essi hanno infranto la maggior parte dei comandamenti e sono incorsi in ogni concepibile er-rore».

I critici della missione sono solitamente partiti dall'ipotesi che missio-ne fosse soltanto ciò che andavano facendo i missionari occidentali quan-do salvavano le anime, insediavano nuove chiese e imponevano agli altri i loro usi e voleri. Tuttavia, non dobbiamo mai restringere la missione a questo progetto empirico; essa é sempre stata qualcosa di più grande del-l'impresa missionaria osservabile. La missione - é vero - non può nem-meno essere separata completamente dall'impresa osservabile. Essa é, piuttosto, missio Dei che cerca di assumere dentro di sé le missiones eccle-siæ, i programmi missionari della chiesa. Non é la chiesa a "intraprende-re" la missione; é la missio Dei a costituire la chiesa. La missione della chiesa ha bisogno di essere costantemente rinnovata e riconcepita. Non é competizione con altre religioni, non é attività di conversione, non é e-spansione della fede, non é costruzione del regno di Dio; e non é neppu-re attività sociale, economica o politica. Eppure tutti questi progetti hanno un qualche merito. La preoccupazione della chiesa é dunque la con-versione, la crescita della chiesa, il regno di Dio, l'economia, la società e la politica - ma secondo una modalità differente! La missio Dei purifica la chiesa. La pone sotto la croce - l'unico luogo dove possa mai stare al sicuro. La croce é il luogo dell'umiliazione e del giudizio, ma é anche il luogo del riposo e della rinascita. In quanto comunità della croce, la chiesa non si esaurisce pertanto nei soli "membri della chiesa", ma costituisce la comunione del regno; in quanto comunità dell'esoda, e non in quanto «istituzione religiosa», invi-ta le persone alla festa senza fine.

Considerata in questa prospettiva, la missione é, molto semplicemente, la partecipazione dei cristiani alla missione liberatrice di Gesù, partecipazione che scommette su un futuro che l'esperienza verificabile sembra smentire. É la buona novella dell'amore di Dio, incar-nato nella testimonianza di una comunità, per amore del mondo.

N.B.

L'articolo è una compilazione dei testi presi dal saggio di David J. Bosch „Missione in molti modi" in: La Trasformazione Della Missione. Mutamenti di paradigma in missiologia. 2000, Editrice Qiriniana, pp.705 &endash; 716.

Ryszard Mis, scj