Incontro del Direttivo Generale con i Superiori Provinciali, 
Regionali e delle Comunità di MAD, PHI e IND


Omelia del Superiore Generale
nella Messa di apertura (3 novembre 1998)
Memoria di S. Martino de Porres, religioso
Fil 2, 5-11; Sal 21 (22), 26-32; Lc 14, 15-24

 

Come è abitudine, incominciamo il nostro «Incontro di Superiori» con la Celebrazione Eucaristica. Non può essere diversamente, poiché essa è il momento culminante della vita di Cristo e della Chiesa. Lo è in forma determinante anche per noi, Sacerdoti del Sacro Cuore, data la specificità che l'Eucaristia ha nella nostra spiritualità di figli di Padre Dehon.

La Parola ora proclamata, intrecciandosi con la memoria liturgica di San Martino de Porres, viene ad illuminare l'evento dell'Incontro, offrendoci spunti, criteri e orientamenti che possono situare l'Incontro nella sua giusta dimensione e scopo.

È vero che non si deve scambiare l'Incontro per un ritiro spirituale: altra è la sua natura e finalità; si tratta di uno strumento di consultazione e di governo, indirizzato ad individuare e a fissare delle strategie per gestire in modo adeguato la realtà del nostro Istituto. Non si deve, tuttavia, perdere di vista il suo scopo finale, quello di rafforzare la vita della Congregazione e far fruttificare il suo carisma.

In questo senso, l'Incontro ci coinvolge tutti in un ampio sforzo di comunione tra noi e di impegno teologale nella nostra realtà personale più intima.

Perciò, l'intreccio tra memoria liturgica, parola proclamata ed evento congregazionale disegna un itinerario spirituale che vorrei proporvi con semplicità. Infatti, nessuna azione di governo è fine a se stessa e non è efficace senza la grazia di Dio. Inoltre, ogni azione di governo dovrà essere sempre subordinata e orientata a cercare la coerenza e la fedeltà di vita degli SCJ come persone e come comunità, in ordine alla loro missione, alla loro consacrazione e vocazione specifica.

Passo quindi a mettere in rilievo il messaggio che, a mio avviso, ci viene «oggi» dai tre elementi segnalati.

 

1. La parola proclamata

Nel testo ai Filippesi, Paolo ricorre ad un inno cristologico che presenta le diverse tappe del Mistero di Cristo: la sua preesistenza divina, l'annientamento dell'incarnazione e morte in croce, la glorificazione che Gli ha dato il Padre e l'adorazione che Gli viene tributata da tutto il creato.

Questo mistero diventa anche la via spirituale del credente, dell'uomo che segue Cristo. È il modo di vivere la vita cristiana nella comunità della Chiesa, rivestendo i sentimenti di Cristo e rinunciando a trattamenti e prerogative che, pur avendone il diritto, possono allontanare da un rapporto più fraterno, di umiltà, solidarietà e carità.

L'annientamento di Cristo Lo ha portato a farsi «servo-schiavo», «simile agli uomini», «umiliando se stesso», «facendosi obbediente fino alla morte di croce». E' il percorso di un servizio reso in modo incondizionato, sottomesso alla volontà altrui, fino alle conseguenze estreme di consumare così la propria vita in una condizione ritenuta perfino ignominiosa. Ma è proprio a questo punto che Cristo riceve la sua massima esaltazione e viene proclamato e riconosciuto «Signore» della Storia e dell'universo, a gloria del Padre.

L'Apostolo ci invita a rassomigliarci a Gesù, ad identificarci con Lui, proprio in questo cammino di annientamento e di amore, di morte e di vita. Questo mistero, anche se incomprensibile, è possibile viverlo, con la grazia di Dio. Una grazia che Dio offre a tutti, ma che viene accolta soltanto dai piccoli, dagli ultimi: i poveri in spirito.

Ci viene in aiuto il Vangelo odierno. Il Padre, nel suo amore, chiama tutti al Regno messianico, raffigurato nell'immagine di un festante banchetto. E' un disegno di amore che Dio porta avanti attraverso i suoi servi fedeli, inviati ripetute volte a tutti; ma è anche un disegno che non tutti comprendono e che quindi corre il rischio di essere rifiutato, subordinato ad altri affari ritenuti più importanti.

La storia della salvezza offre proprio il paradosso che i primi invitati, nella supposizione siano loro in grado di capire meglio le cose, rifiutano. Tra loro e l'offerta divina si frappongono altri valori, altre preoccupazioni, altre urgenze e priorità: il mio campo, i miei buoi, la mia moglie.

Invece, i poveri, gli storpi, i ciechi e i zoppi, quelli che sono sulla strada, cioè, quelli che non possono dire «questo è mio», gli umanamente inabili, gli esclusi, gli ultimi... questi vengono a riempire la casa della festa, entrano e si siedono a mangiare il pane nel Regno di Dio. «Dio ha scelto ciò che è stoltezza del mondo per confondere i sapienti; ciò che è debolezza per confondere i forti, ciò che è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per annientare le cose che sono» (Cf. 1 Cor 1, 27-28).

Questo modo di essere e di agire di Dio si è realizzato nella persona e nell'opera di Gesù e si prolunga nella storia attraverso i suoi testimoni. La Liturgia odierna ci offre un esempio storico, proponendo la memoria di San Martino de Porres.

 

2. Memoria liturgica di San Martino de Porres

Faccio riferimento ad essa, perché si tratta di un Santo religioso, fratello converso dell'Ordine domenicano.

La sua vita è segnata dalla condizione di mulatto e figlio illegittimo di una schiava nera e di un nobile spagnolo, che lo impediva di diventare sacerdote: un «afroamericano», un escluso ed emarginato, uno dei tanti poveri e piccoli del suo tempo e del mondo di oggi.

Si consacra tuttavia alla vita religiosa e diventa portiere del convento, prestando i servizi di barbiere e di infermiere, mestieri che - per le sue doti naturali - già esercitava quando era nel mondo.

Il suo costante riferimento a Dio, a cui riconosce il primato su tutto il suo essere; la sua intensa vita eucaristica; la sua carità sollecita verso gli ultimi come lui; il suo amore e rispetto per la natura... fanno di lui la persona più ricercata nella città. La sua cella diventa un punto di incontro, un posto di accoglienza e di riferimento per molta gente.

Nel suo cammino di santità, Martino non si trova solo. In quel momento della Storia sorge a Lima un grappolo di Santi, dalle più svariate vocazioni: un vescovo (San Toribo de Mogrovejo), una laica consacrata (Santa Rosa di Lima), un missionario francescano (San Francesco Solano) e un religioso dello stesso convento, fratello pure lui (San Giovanni Macías), ed altri servi di Dio...

Questo stesso periodo coincide con un tempo d'oro della Chiesa che è in Lima per il suo slancio apostolico, l'organizzazione pastorale, sforzo di "inculturazione" e rinnovamento interno. A ciò hanno aiutato molto i famosi Sinodi di Lima. Tutto ci sta a dire che "santità di vita" e una "certa organizzazione", non sono contrapposti, anzi si aiutano a vicenda.

Martino de Porres è uno dei più piccoli a cui il Signore si è rivelato in pieno e che ha saputo risponderGli con un amore incondizionato, vivendo in modo eroico la sua vita teologale nella quotidianità di religioso fratello. I capisaldi della sua vita spirituale sono: l'Eucaristia, il servizio ai confratelli e ai più piccoli e poveri, la gioia, l'umiltà, la mortificazione. Un'immagine che, nelle nostre comunità, spesso abbiamo visto realizzata anche in tanti confratelli della nostra Congregazione, soprattutto nei "Religiosi Fratelli".

 

3. L'evento congregazionale dell'Incontro di Superiori

La parola proclamata e la memoria liturgica vengono ad illuminare il nostro Incontro, aprendoci delle prospettive interessanti. Da parte mia, oso trarre alcune conclusioni e applicazioni che aiutano ad impostare teologicamente questi giorni. Condivido dunque con voi alcuni spunti, senza pretendere esaurire l'immenso tesoro che l'odierna Liturgia offre.

a) Il nostro Incontro deve essere un servizio di governo e di profezia

Fondamentalmente, ci siamo radunati per approfondire e dare concretezza al programma di questo sessennio: un programma delineato dal Capitolo Generale e che ci coinvolge tutti nella corresponsabilità della Congregazione, intesa come un corpo, come la famiglia di tutti.

È importante passare dai principi all'azione, facendoli diventare operativi. Si tratta di concretizzare, con intese e scelte adeguate, il nostro Sint unum; la nostra comunione; la nostra fraternità congregazionale; la nostra unità nella ricchezza delle diversità; la nostra collaborazione internazionale; la nostra condivisione di progetti, persone e mezzi; la dimensione universale del carisma dehoniano.

Ciò suppone realismo, capacità di discernimento dei segni dei tempi e saggezza, perché le modalità della nostra missione possono diversificarsi secondo i tempi e i luoghi.

Per raggiungere un tale obiettivo ci vuole un certo profetismo che ci renda creativi e capaci di accogliere le novità e le provocazioni di Dio, non solo a livello individuale, ma a livello dell'organismo congregazionale, che siamo chiamati a governare. Cioè, quel profetismo necessario ad animare e condurre (= governare) la Provincia, la Regione o la comunità, di cui siamo Superiori, perché risponda all'«oggi di Dio» (Cf. Cst. 144).

Con tutta la nostra buona volontà, possiamo come Superiori perdere l'occasione della «gioia del banchetto», se rimaniamo arroccati nei propri diritti o sicuri nei propri beni o intrappolati nei propri affari e problemi:

La rivendicazione esagerata dei propri diritti, l'autosufficienza e la limitazione degli orizzonti sono tentazioni possibili anche nella Congregazione, in un certo senso, per tutte le Province, Regioni e comunità internazionali.

Sta a noi, Superiori, essere i primi ad esperimentare e a suscitare l'impegno di un'impostazione diversa. A questo punto, è importante capire che il nostro compito non è solo quello di gestire una realtà, ma anche quello di condurre una parte della Congregazione in fedeltà al carisma ricevuto, in una fedeltà creativa che a volte è scomoda.

Il presente Incontro costituisce un tempo privilegiato e un'occasione unica per crescere nel compito affidatoci.

b) Non perdere mai di vista il traguardo finale: la missione della Congregazione

La Congregazione, come peraltro tutta la Chiesa, è in funzione dell'annuncio del Vangelo. Come il servo del testo proclamato, essa è inviata ad invitare tutti al banchetto del Regno. È la sua missione, la sua ragion d'essere, che si realizza secondo le modalità del nostro carisma.

Dobbiamo quindi sentirci spinti ad andare sulle strade del mondo, inviati a tutti; sentirci inviati a più riprese, toccati sempre di più dalle nuove sfide che si pongono alla Chiesa; aperti soprattutto ai malandati della terra, a coloro che soffrono e sono maggiormente vittime delle miserie umane; sentirci inviati finché la «casa si riempia».

Ci saranno quindi sempre nuovi motivi d'impegno missionario. Si deve solo ascoltare la voce del Padre e fare nostri i suoi sentimenti e la sua volontà di salvezza. Si tratta di provare in noi la sete di Cristo (Cf. Gv 19, 28) e il suo tormento interiore perché divampi il fuoco che Egli venne a portare sulla terra (Cf. Lc 12, 49-50).

Chiamare tutti al banchetto del Padre, alla sua festa, suppone essere convinti del destino universale del Vangelo, che siamo inviati ad annunciare in parole ed opere, in forma opportuna e inopportuna (cf. 2 Tm 4,2). Significa anche riaffermare la nostra missione di essere «profeti dell'amore e servitori della riconciliazione in Cristo» (Cst 7), come con insistenza ce l'ha chiesto l'ultimo Capitolo Generale.

c) Mantenerci nella prospettiva spirituale del nostro Fondatore

Il centro e il modello assoluto della nostra vita è il Cuore di Gesù. Siamo quindi invitati a raffigurarci a Lui, ad identificarci con Lui, ad avere i suoi sentimenti, a percorrere il suo cammino di obbedienza al Padre e a condividere il suo destino di croce e risurrezione.

Questa è stata la prospettiva spirituale del Padre Fondatore e la sua esperienza fondamentale, tanto da costituire come programma e sintesi della sua vita, le parole di Paolo: «... crocifisso con Cristo... non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me... vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e dato se stesso per me» (Gal 2, 20).

Padre Dehon rimane per noi il modello storico di come si percepisce e si vive da religiosi SCJ. Egli ci spinge a credere nella «bellezza della nostra vocazione» e nella certezza che la «Congregazione è opera di Dio»; ci ricorda che «la vocazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore è inconcepibile senza la vita interiore» (Dir.Sp. VI, 21), che è precisamente unione al Cuore di Cristo e alla sua oblazione, fondamento di tutti gli altri impegni.

Anche a partire dalla Liturgia odierna, sono pienamente convinto dell'importanza che questa prospettiva ha per noi e che dovrebbe essere rafforzata in tutta la Congregazione.

d) Nella condizione di poveri

Oltre al servizio ministeriale di andare per le strade del mondo a chiamare i poveri al Vangelo, è importante assumere la condizione di poveri per capire, cioè vivere, e annunciare il mistero di Cristo «oggi».

In un mondo secolarizzato, mondializzato ed impoverito, con tante luci ed ombre contrastanti, la novità del Vangelo e il fulcro di rinnovamento della vita religiosa passano per la nostra scelta concreta dei poveri e della povertà evangelica. Cioè, l'essere piccoli, lo scomparire, il credere alla forza dell'amore e alla gratuità del dono di Dio... ci permetteranno di pensare e di programmare con realismo, saggezza e profezia.

La forza di questa Eucaristia e la preghiera intensa degli uni per gli altri, ci ottengano un Incontro che corrisponda pienamente a quanto il Signore attende dalla nostra Congregazione.

Ci assistano Maria e Padre Dehon, e oggi anche S. Martino de Porres, la cui intercessione invochiamo con tutto il cuore.

 
P. Virginio D. Bressanelli, scj
Superiore Generale